TRAMA
Giornalista trentacinquenne di una testata romana, Enrico riceve una telefonata che gli comunica la morte del fratello minore Lorenzo. Sconvolto e disperato, rincasa immediatamente e, di fronte a un paesaggio deserto appeso alla parete, evoca dentro di sé i ricordi del fratello più piccolo di otto anni.
RECENSIONI
«È un film dove l’amore nasce dal bisogno che “chi sta di fronte” ha di colui che “gira le spalle” e viceversa. È un film sulla debolezza, soggetto più raro di quanto non sembri» (Serge Daney).
Comunemente quando si parla di Zurlini non passano tre frasi prima che vengano tirati in ballo i numi tutelari di Antonioni o Visconti: come dire che il suo è un cinema irrimediabilmente minore e inevitabilmente debitore della lezione dei grandi maestri del cinema italiano del secondo dopoguerra. Da Antonioni il gusto per la spoliazione figurativa e lo smarrimento esistenziale, da Visconti la storicità narrativa e la tendenza alla melodrammaticità decadente: pratica Zurlini archiviata. E invece. Invece basta guardare (e riguardare) attentamente Cronaca familiare, Leone d'oro alla XXIII Mostra del Cinema di Venezia (ex aequo con L'infanzia di Ivan di Andrej Tarkovskij), per cogliere appieno l'irriducibile singolarità della poetica zurliniana, vibrante di assonanze letterarie e risonanze pittoriche, permeata di struggimento interiore e sensibilità melanconica, materiata di esattezza spaziale e pregnanza sentimentale. Tutti motivi, questi, che trovano esemplare e supremo inveramento nel quarto lungometraggio di Valerio Zurlini (che segue a Le ragazze di San Frediano, 1954, Estate violenta, 1959, e La ragazza con la valigia, 1961).
Già, perché se La prima notte di quiete (1972) sarà il suo film più autobiografico e incontrollato, Cronaca familiare, tratto dallomonimo libro di Vasco Pratolini, è quello in cui si avverte e percepisce con maggiore nettezza la propensione squisitamente zurliniana a riversare la cifra degli affetti nel linguaggio filmico, che in tal modo si fa luogo di trasfigurazione e infiltrazione emotiva. In questo film così struggente e disperato, storia di un fratello maggiore (Mastroianni in un'interpretazione indimenticabile) che stenta a comprendere le ragioni del consanguineo più fragile e bisognoso di affetto (Perrin, attore giustamente prediletto da Zurlini), la messa in scena rimbomba di soluzioni visive sorde e discordanti, come se la divergenza sentimentale dei due fratelli si traducesse in configurazioni cinematografiche drammaticamente laceranti. Inquadrature lunghissime che culminano in posture 'spalle alla macchina' (come la sequenza della telefonata da Firenze nell'incipit), composizioni del quadro che privilegiano l'ambiente rispetto alle figure umane talvolta escludendole dall'immagine (come negli scorci fiorentini di sapore rosaiano che originano dalla tela appesa in casa di Enrico), dialoghi immersi in opprimenti penombre in cui la formula del campo/controcampo è rigorosamente bandita e nei quali le reticenze e le confessioni smozzicate dicono tutta l'inconciliabilità dei linguaggi affettivi dei due fratelli (il primo dialogo a luce staccata in camera di Enrico): ecco come la lacerazione sentimentale si fa cinema in Zurlini. Opacamente.
A nobilitare ulteriormente questo canto funebre aspro e dolce al tempo stesso (la marmellata d'arancio, sapore dell'infanzia perduta ed estremo vagheggiamento della madre mai conosciuta, è correlativo oggettivo del sentimento provato da Lorenzo) provvede il commento musicale di Goffredo Petrassi, che muove da larghezze maestosamente albinoniane nella prima parte per incrinarsi in sonorità contrappuntate da dissonanze nella seconda, modulando in fraseggi di morbida intimità nei momenti di più commovente tenerezza o tacendo pudicamente per lasciare spazio alla voce narrante di Enrico in quelli più introspettivi. E se la fotografia austera e cromaticamente smorzata di Giuseppe Rotunno non è estranea agli scorci della Firenze d'Oltrarno di Rosai, la capacità di iscrivere vividamente e concretamente le figure nello spazio è tutta zurliniana, una capacità che il sottostimato cineasta bolognese aveva già mostrato di possedere nei suoi film precedenti (Le ragazze di San Frediano, giova ricordarlo, era ambientato proprio a Firenze) e che in Cronaca familiare sublima in vera e propria maestria stilistica. Un epicedio cinematografico di lancinante, marmorea malinconia.

Attraverso il volto crucciato di Marcello Mastroianni, Valerio Zurlini ripropone il suo cinema “esistenziale”, dove Storia e Politica fanno da mero sfondo (l’Italia fascista, la lotta comunista) per l’uomo di fronte alla morte, la vecchiaia, i legami di sangue, i rapporti di classe, le asprezze della vita. Dopo Le Ragazze di San Frediano, che gli fu imposto e non sentiva suo, il regista torna a un romanzo (1947) di Vasco Pratolini che rispetta nei segni ma amplia (commissionando allo scrittore due scene inedite, quella con il carretto e quella in tipografia, necessarie a descrivere l’incomprensione e non solo l’amore fraterno), componendo un (melo)dramma commovente e straziante, riflessivo e grave nel suo clima perennemente depresso, di malattia, con una precisa iconografia pittorica (ispirata ai quadri di Ottone Rosai) all’insegna di tinte gialle (tutte le case e gli interni, mentre la stagione prediletta è quella autunnale). Un cinema elegante che contrappone, anche simbolicamente, due fratelli e due estrazioni sociali senza restare invischiato nell’ideologia classista (il corvino e trasandato Mastroianni vestito di nero; il diafano, biondo, delicato Jacques Perrin), nel segno dell’ossessione per la decadenza e il trapasso. Un cinema che anticipa l’ultimo Visconti thomas manniano e i cromatismi diegetici del Deserto Rosso di Antonioni, mentre la ricerca interiore, filosofale, può ricordare Ingmar Bergman. Un cinema spesso chiuso tra quattro mura, ponderoso, che vive di dialoghi e volti, sospeso fra realismo, letteratura, lirismo, trasporto amoroso (l’affetto della donna per i due nipoti ricorda quello provato dal personaggio di Eleonora Rossi Drago in Estate Violenta), sofferenze ai capezzali, dilemmi morali, sensi di colpa (Enrico dovrà abbandonare due cari in due prigioni: l’ospedale e l’ospizio). Solo il commento sonoro (che opera variazioni, tra l’altro, sull’Adagio di Albinoni) pare rincorrere l’enfasi emotiva.
