TRAMA
Un senzatetto che vive nei pressi del fiume Hun (Seul) svuota le tasche dei suicidi per guadagnarsi da vivere; ma quando salva una ragazza dalla morte…
RECENSIONI
Esordio di nitido vigore e lucida follia: il coccodrillo è quell’animale salmastro che sguazza tra l’ultimo alito di vita ed il primo istante di morte, il film descrive il (vano) tentativo di camminare sulla terra sino ad arrendersi all’ambiente acquatico, l’unico possibile. Maneggiando la metafora del cosmo sotterraneo (la metropoli e la dignità umana rimangono sopra) appare subito riconoscibile la mano peculiare del coreano: la violenza è uno stato d’animo prima di diventare fisica, quando esplode si riscopre assolutamente funzionale al narrato (dalla sodomia dell’omosessuale all’arresto, un unico filo logico). Se talvolta l’opera è debitrice della vigente estetica orientale (cfr. Kitano: il dolore, raptus improvviso), d’altra parte semina sapientemente i temi che di un’intera filmografia: l’alterità come ricerca della propria condizione (lo sbocciare del sentimento), il volto ciclico degli eventi dove infine si compie ciò che all’inizio fu interrotto (PRIMAVERA...), lo schema tramico che si sfilaccia perché dalla roccia può nascere un fiore – un vezzo fanciullesco o un palloncino rosso sott’acqua come incisi di alta poesia. Il gioco della categorie umane (uomo, donna, vecchio, bambino) è regolato formalmente dalla violenza – le sequenze manesche sono volutamente esagerate – ma nell’intimo si piega alla legge del cuore (il regalo di Crocodile, il pianto luttuoso del bimbo); quando la donna, creatura “diversa” non a caso scintilla del film, comincia a contemplare la chimera della normalità (lo sguardo furtivo alla coppia borghese) nel microcosmo, dissoltosi il proprio codice, si innesca una progressione narrativa perversamente fatale.
Lusinga da appassionati per la sua rete di rimandi, CROCODILE brilla di luce propria sino all’accecamento; lo incornicia la regale eleganza delle corrispondenze interne (i cerchi d’acqua come le lacrime, il palloncino rosso sangue), almeno un momento di violenza pleonastica genialmente costruita (il bicchiere di sangue), la virata verso un umorismo assurdo dunque accattivante (l’evirazione notturna). Una rappresentazione liquida dove il simbolo è già centrale: l’immota statua antica (da quando Crocodile la brandisce contro i compagni sino all’omicidio finale, di cui una fila di marmi è metaforica platea) smorza il vortice dei corpi, la macchia di colore (le barche del fanciullo, la tartaruga blu) serve la beffa straniante contro il grigiore dell’esistenza. La scrittura già si affranca dalla deleteria convenzione (ignoto il passato dei personaggi, azione ripresa in fieri) in un qualsivoglia momento notturno che ne confeziona l’incipit: le cose nel(/i) suo(i) film accadono spoglie da sociologia, ragione o spunto, semplicemente sono. Magnifico il regista nel restituire questa essenza, piegando una novella parabolica a messinscena stellare: gli amanti scolpiti nell’acqua – un filo al finale chapliniano di FERRO 3 – raggiungono finalmente un ordine superiore delle cose, quell’ordine che avrebbero voluto ricreare sulla terra se solo fosse stato possibile.
