TRAMA
Alla fine degli anni Venti in una città dell’est degli Stati Uniti Johnny Caspar, boss italoamericano di una potente famiglia mafiosa, chiede a Leo O’Bannion, uomo di potere irlandese che controlla la città, il permesso di uccidere l’ebreo Bernie Bernbaum, speculatore di incontri truccati. Leo rifiuta la richiesta perché Verna la sua giovane amante, è la sorella del bookmaker. Ne consegue una guerra senza frontiere che vede tra i due fuochi Tom, braccio destro di Leo e amante di Verna.
RECENSIONI
Arrivati al terzo film da registi (sebbene ad essere accreditato sia solo Joel) i fratelli Coen mettono nuovamente appunto quella che diventerà con gli anni una delle loro principali marche autoriali, oltre che una piacevole abitudine: il lavoro di riscrittura dei generi classici. Lo avevano fatto con il noir esordendo con Blood Simple, avevano proseguito prendendo in esame la commedia in Arizona Junior, per cimentarsi successivamente con il gangster movie in occasione di Crocevia della morte. È di particolare interesse il modo in cui gli autori si comportano durante i primi passi della fase creativa, specie perché riflette la loro ambivalenza artistica per cui sono sempre piazzati in bilico tra leggerezza e complessità: la prima fase è quella della suggestione (lo spunto, affermano, era quello di fare un film ambientato negli anni Venti pieno di uomini con mitra e impermeabili); il secondo passo è quello della variazione sul tema, operazione estremamente più lunga, scientifica, quasi maniacale (partendo dall'antifrasi dei gangster nel bosco, fino alla nuova volubilità di personaggi un tempo a tutto tondo).
Vincenzo Buccheri ha definito i Coen più che registi-cinefili (appellativo conferitogli da molti altri) dei registi-critici, ovvero degli autori che si rapportano al testo che hanno tra le mani con la lucidità e la distanza da studioso. È su questa lunghezza d'onda che si piazza Crocevia della morte, opera che oltre a mostrarsi si dimostra: una sorta di saggio a forma di film redatto dai due autori. Un testo che parla di gangster movie collocandosi pienamente in quella galassia di riferimento (il film inizia come Il padrino e finisce come Il padrino – Parte seconda), ma che usa l'espediente dell'alterazione da una parte per omaggiare antifrasticamente la memoria del genere, dall'altra per offrire una personale rilettura in grado di piegare una modalità consolidata da diversi decenni ad una poetica decisamente marcata. É così che, alla ormai standardizzata linearità del film gangsteristico che ha da sempre utilizzato l'ascesa e la caduta dell'eroe come impalcatura narrativa principale (Scarface è l'archetipo per eccellenza), i due autori contrappongono una circolarità disorientante, una struttura labirintica e senza uscita. Al posto della sacralità della vita, alla quale corrispondeva l'ancor più nobile sacralità della morte, venute fuori dai primi gangster movie degli anni Trenta, i Coen propongono un rapporto a doppio filo tra lealtà e morte che fa il paio con quello tra vita e menzogna, in un universo in cui tutti tradiscono tutti e la lealtà è ben lontana dal portare giovamento. É per questo che le virtù dichiarate a Leo (e agli spettatori) da Caspar nello straordinario prologo non sono altro che uno sberleffo ad un sistema di valori che da quel momento in poi il film si appresta a spazzar via.
Il "Miller's crossing" è il luogo del sogno premonitore, il crocevia della svolta, della scelta, di un incontro ravvicinato con la morte e con se stessi. Il personaggio di Gabriel Byrne resta inconoscibile ed ambiguo, fermo ad un incrocio, mentre la sua anima (il cappello) prende il volo: è cinico, corrotto, ma forse anche "morale", o solo innamorato, onesto oppure spinto dall'opportunismo. Facendo nostro il suo punto di vista, possiamo solo immaginare di mettere ordine in un gangster-movie dal complicato intrigo noir (il boss, il suo "socio", la femme fatale fra i due...) che si trasforma in un gioco al massacro dove verità e menzogna si rimpallano fra soffiate, malelingue, doppi giochi, bluff e rilanci. I Coen optano per un cinema ancorato ai classici hollywoodiani come a Scorsese (la rivalità fra "razze"), al solito Padrino e a Scarface (di Hawks e di De Palma: vedi Finney che si batte come un leone con il mitra in mano). La loro tipica matrice grottesca e paradossale non è esibita, fa capolino solo a sprazzi, resta sotterranea allo studio su dei personaggi mossi dall'onore, dall'orgoglio, dall'egoismo e dal camaleontismo; abita nell'assurdità della parola "etica" pronunciata da un mafioso, nei voltagabbana continui della polizia e del sindaco, nelle esplosioni di violenza dove la deformazione e l'urlo non fanno che aumentare i brividi (vedi la terribile scena dell'esecuzione alla presenza del boxeur). Per stilizzazione ed ambizioni è un'opera che prelude a Barton Fink rinunciando alle ridondanze come in Fargo, ma che rischia di rimanere troppo inerme al bivio degli opposti come il suo protagonista.