Horror, Recensione

CRIMSON PEAK

TRAMA

In una cupa Inghilterra del diciannovesimo secolo, all’interno di una minacciosa abitazione vittoriana persa nelle campagne rurali del nord: la vita di Edith Cushing si svolge qui, impegnata nel suo lavoro da aspirante scrittrice e combattuta tra l’amore per due persone diverse. All’indomani di una tragedia familiare, l’esistenza della ragazza si trasforma in un incubo.

RECENSIONI

Se c’è una cosa che caratterizza il cinema di Guillermo Del Toro è, senza ombra di dubbio, la coerenza dell’immaginario, la divertita variazione delle sue ossessioni, il gioco ammiccante con lo spettatore, la capacità di rielaborare i vari universi di riferimento destabilizzandoli con artificiosa enfasi. Crimson Peak si muove indisciplinato dentro l’Ottocento/Novecento tra letteratura e pittura, in un valzer continuo ricco di rimandi, suggestioni e giocose riconfigurazioni, portando i modelli a una chiara letteralità, esibita e spudorata, un po’ come la plasticità retrò della scenografia che si mimetizza, simile a un insetto, tra le maglie del digitale. Sembra di toccare questo mondo sullo schermo, così attento ai suoi oggetti, piccoli dettagli esasperati nella loro fisicità che riportano a certe pellicole di genere degli anni 40. Edith, una novella Jane Austen che sogna con gli occhi di Mary Shelley attraversa il melodramma, il gotico, il giallo, il whodunit, nasce tra la deformità dell’espressionismo e raggiunge la sua maturità dentro l’esplosione pulp. A farle da ispirazione sono i fantasmi dell’immaginazione, proiezioni del suo desiderio di realizzare un’opera d’arte. Dalle apparizioni della madre che la mettono in guardia su Crimson Peak, nera e liquida come l’inchiostro, alle presenze dentro l’infestata Allerdale Hall, gocciolanti zombie dello stesso color cremisi del sangue/argilla. Il sangue e l’inchiostro diventano così i due aspetti creativi necessari per sperimentare quell’amore che era assente nella prima stesura del romanzo e che diventerà comprensibile solo grazie alla sua successiva mancanza.
Non è un caso che le visioni fantastiche del regista messicano facciano sempre i conti con un qualcosa di assente, ne sono l’imprescindibile motore primo, che sia nella Storia, in un’esperienza personale, in un trauma, in un sentimento assillante. Queste immagini di fantasmi e mostri riemergono dalle (nostre) profondità, spazi di evasione cinematografica ma soprattutto nemesi di una realtà che non sempre è facile da accettare e per cui abbiamo bisogno di una lente deformante.

Non è possibile rimanere indifferenti al virtuosismo di Crimson Peak: movimenti di macchina, che richiamo il valzer tra il baronetto Sharp ed Edith, volteggiano tra l'enorme profondità di campo dell'haunted castle; punti luce dagli svariati cromatismi fanno vagare il nostro occhio dentro un'elegante stratificazione dell'immagine; effetti-dipinto si susseguono, più o meno palesemente, dall'impressionismo all'Art Nouveau, dal Simbolismo a Francis Bacon. Ma è in particolar modo l'utilizzo dello spazio, che trova il suo vertice massimo nell'ambientazione gotica, a colpire per efficacia ed immersione dello sguardo. Questo aspetto si evidenzia nella percezione del mistero da parte della protagonista da sempre giocato nella filmografia di Del Toro con l'entrata dentro ambienti la cui profondità e simmetria prospettica accentuano il senso di stupore e scoperta, e soprattutto l'incapacità di controllarne le dinamiche al suo interno. Edith cammina verso la macchina da presa o viene seguita da essa nell'ostinata condizione di perlustrare realtà dense di mistero, tra corridoi, cantine sotterranee, bagni. Il movimento è affiancato da un forte senso di esplorazione. Detto ciò non mancano però aspetti meno convincenti, a partire dall'utilizzo della suspense che, quasi dovesse scendere a patti con logiche di mainstream punta sul jump scare con assordanti sottolineature della colonna sonora. Questo non è nulla se ci soffermiamo un attimo sul chiaro problema di quest'opera che in parte brucia il suo strabordante gioco visivo. Mi riferisco ovviamente alla scrittura, in bilico tra il riassunto letterario for dummies e la semplificazione più spartana, ennesima riprova di quanto Del Toro, affiancato come per Mimic da Matthew Robinson, non riesca a dare un giusto riflesso del suo stile nella scrittura. Certo, è chiaro il patto con lo spettatore nell'inserirlo in regole riconoscibili che gli permettano di avere fin dal principio una posizione privilegiata sulla storia raccontata, ma, se la rappresentazione appare divertita nel suo sperimentare e mescolare le evidenti suggestioni, non si può dire altrettanto per i dialoghi e le soluzioni narrative che passano piuttosto in sordina. Non resta che accontentarci di abbinamenti sulla carta spassosi nell'attesa che Del Toro renda ricca la sua sceneggiatura come la regia: Hitchcock va a braccetto con lo slasher, Baby Jane incontra Beatrix Kiddo. E Shining sembra uno zombie movie diretto da James Whale.

Sono numerosi i film che manifestano un legame evocativo o simbolico con il colore rosso, spesso dichiaratamente esplicitato nel titolo - Profondo rosso, Film rosso, Lanterne rosse, La signora in rosso, Il deserto rosso. Più rare diventano le occorrenze quando il riferimento è a una tonalità -La lettera scarlatta, nel film come nel libro-, ossia quando il terreno strettamente simbolico di un colore assume i contorni di una sfumatura, più labili, poiché meno codificati, eppure talvolta più significativi, proprio per il senso ulteriore nascosto fra le pieghe di un tessuto cangiante, che va oltre il sinonimo o il vezzo: non si scomoda tutti i giorni, nel nostro lessico, il cremisi, il più prezioso dei rossi. Cremisi o “rosso di kermes”, dall'insetto che ne custodisce il pigmento, copiosamente estratto e riversato nei bagni di tintura che assicuravano ai più bei velluti rossi rinascimentali di risplendere di tutti i privilegi dell'unico ceto che poteva sostenerne il costo, quello aristocratico, chiaro. Scegliere un picco cremisi, su cui il maniero di tali Sharp si erge e cade a pezzi, su un terreno instabile di ribollente argilla rossa, in cui sciami di falene agonizzano perché “tale è la natura”, significa costruire un discorso insidioso e tagliente, decadente e sanguinolento e, nel suo mistero, sensuale. Il dosaggio visivo dei rossi -dall'anello, al sangue, alla terra, agli spettri- è efficacemente inserito in una gamma cromatica più che mai satura e variopinta che rompe lo schema essenziale del gotico con barocchisimi fotografici che esplorano la fiaba con gusto macabro, insieme opulento e fatiscente, immancabile in Del Toro.

Ancora più selettivo è l'uso del rosso negli abiti di scena, che finisce per individuare un singolo personaggio, Lucille (Chastain), sanguinaria, folle, passionale, elegantissima, incestuosa. Mentre in Edith (Wasiskova) prevalgono i bianchi e Thomas (Hiddleston) è un antieroe romantico in nero. Sono i vertici di un triangolo cromatico che sintetizza un sistema di opposizioni basilari nel codice fiabesco: bianco-nero-rosso come luce-ombra-colore. Lucille che mostra a Edith i disegni scandalosi celati in sezione nei libri, oppone il proprio rosso eros al candore innocente della ragazza, in una contrapposizione che ricorda la rossa Lucy di Dracula di Brahm Stoker che scherza con la timida Mina di fronte a illustrazioni del Kamasutra. Così come la relazione Edith-Thomas è amorosa e predatoria e li identifica come vittima e adescatore-vampiro (l'eleganza emaciata del pallore vestito di nero dona molto a Hiddleston, già iconizzato nel suo maledettismo dark dal recente Jarmush  di Only lovers left alive). Il tutto in un castello nero, innevato, che rigetta fiotti rossi dalle fondamenta. Ma la vera chiave che rompe lo schema così cristallizzato è da ricercarsi altrove, in tutt'altra gamma, fondamentale in Del Toro, ovvero negli ocra, nei gialli, nelle tinte che cercano l'oro. Qui, il lavoro della costumista Kate Hawley, che proviene dall'opera e dal teatro inglese, si diversifica in fitte increspature, maniche, ricami, accessori minuziosamente realizzati, in cui si fondono il benessere economico alto-borghese di Edith e il gusto dell'oggetto ricercato, che sta all'abito come le farfalle, decor morente, stanno al castello, nel quale la stessa Edith è un bell'oggetto da consumare e lasciar morire, per una Lucille che ne disprezza la provenienza, ma ne ha una stretta necessità monetaria. Nell'erompere degli ocra dorati c'è un simbolismo luminoso, non risolutivo, ma a suo modo vincente, come per la piccola Ofelia di Il labirinto del fauno che, nella morte, ritrovava il proprio Regno, espiava l'orrore del reale in un altrove fantasioso, forse inesistente, ma aureo. Lo faceva, guardacaso, in un abito giallo oro, con una piccola giacca cangiante, vermiglia.

A non funzionare è il compromesso fra aderenza e omaggio postmoderno: Guillermo Del Toro resuscita, replica e omaggia il gotico vittoriano, con idee eccellenti e un notevole décor figurativo, soprattutto nei cromatismi stile Mario Bava e Hammer (il cognome della protagonista è quello di Peter Cushing). Di mezzo c’è anche il “romanzo”: in uno scambio iniziale di battute si citano Jane Austen e Mary Shelley, modelli stilistici in cui si divide la drammaturgia ma, se della seconda ci sono i segni esteriori di orrore, della prima manca completamente l’afflato che renda credibili le trame dell’amore maledetto. La parte “letteraria” (i sentimenti, i traumi, i personaggi) non funziona perché quella del regista è una riproposizione amorevole che insiste sugli stilemi ma dimentica la loro efficacia. La passione opposta alla ragione, con ferite e tracce soprannaturali, è un tema portante del genere, da Cime Tempestose a Il Castello di Dragonwyck, da “I misteri di Udolpho” a Rebecca la Prima Moglie (Del Toro cita “Lo zio Silas” di Jospeh Sheridan Le Fanu): l’aderenza è ricercata, ciò che è messo in scena la fugge. Valga per tutti l’esempio della voce narrante della protagonista nel finale che, con tono grave che cerca consenso, descrive il ‘motivo di essere’ dei fantasmi: una declamazione che non produce alcun effetto perché la donna malvagia (notevole Jessica Chastain), il personaggio moralmente grigio di Tom Hiddleston (romantico solo sulla carta), i fantasmi orripilanti e la violenza nel sangue sono stati mero “gioco” citazionista, con spaventi figli di effetti sonori, mostruosità epidermiche e intellettualismi gratuiti (l’urlato iato fra americano che si fa da sé e nobiltà europea dei privilegi; i rimandi fra il romanzo redatto e ciò che accade alla protagonista). Il talento di Del Toro alberga altrove, nelle visioni con cui riempie gli occhi e nei movimenti con cui eccita le visioni, in idee come quella dell’argilla che inonda di rosso la neve o quella della neve che cade perenne nell’atrio del maniero.