Drammatico, Recensione

CREPUSCOLO DI TOKYO

TRAMA

Abbandonate da piccole dalla madre, le due figlie di un banchiere hanno problemi nella vita affettiva: una abbandona il marito cupo e ubriacone, l’altra rincorre inutilmente un ragazzo che l’ha messa incinta.

RECENSIONI

È ormai automatico, a partire dall’insuperato studio di Paul Schrader (Il trascendente nel cinema. Ozu, Bresson, Dreyer), il riferimento al buddismo zen per descrivere il cinema di Ozu. Ma a mio avviso la scuola buddista più esatta per penetrare nella poetica ozuiana e nella sua progressiva rarefazione stilistica che rasenta l’ascesi è quella Tendai, che trova la sua espressione più nota nella dottrina della Triplice verità. Secondo questa formulazione la realtà è composta da tre aspetti concomitanti: la “vacuità” sostanziale di tutte le cose, la “convenzionalità” esteriore di tutti i fenomeni e la “Verità di mezzo” data dalla sintesi dei due aspetti contraddittori. Grazie a questa terza via il mondo fenomenico – la realtà – viene considerato come consustanziale alla Verità: stando nel mondo è possibile coglierne l’impermanenza e la vacuità sostanziale, senza per questo negarne l’importanza e la necessità contingente. La Verità di mezzo consiste insomma in una concezione che scorge simultaneamente la vacuità dei fenomeni calati in una realtà temporale e convenzionale. Crepuscolo di Tokyo, ultimo film in bianco e nero di Yasujirô Ozu, incarna perfettamente la concezione Tendai: posizionata “ad altezza cane”, la mdp è al tempo stesso principio di svuotamento della materia e di partecipazione agli eventi. E ciò avviene non tanto in virtù della vicenda narrata (un nucleo familiare improvvisamente scosso da una gravidanza clandestina e dall’inopinato ritorno della madre che era fuggita di casa quando le figlie erano ancora molto piccole), quanto in virtù dello stile cinematografico adottato: abolizione dei movimenti di macchina, frontalità reiterata nella dialettica campo/controcampo, insistite composizioni con effetti di “quadro nel quadro”, disposizione “dedrammatizzante” dei corpi nelle inquadrature, durate scrupolosamente cronometrate, elisione dei nuclei a maggiore temperatura emotiva e inserzione di piani d’ambiente (strade, treni, scorci di paesaggio) che sciolgono la tensione accumulata nella serena contemplazione dell’esistente. Spesso si parla di semplificazione stilistica: riducendo progressivamente le soluzioni del suo linguaggio, Ozu sarebbe approdato ad una sorta di semplicità assoluta. Ma affrontare il processo di rarefazione linguistica dal solo punto di vista estetico rischia di trascurare l’aspetto cruciale e dinamico della sua ricerca, vale a dire l’esattezza: Ozu non semplifica, depura; non riduce, perfeziona. La sua ricerca è interamente protesa al raggiungimento della “Verità di mezzo” tra vacuità e convenzionalità, nulla assoluto e contingenza: Tôkyô boshoku, melodramma svuotato e spoglio ritratto urbano, ne è olimpico e lancinante inveramento.