TRAMA
Adonis Creed sta prosperando nella sua carriera e nella sua vita familiare. Quando un amico d’infanzia ed ex prodigio del pugilato ricompare dopo aver scontato la pena in carcere, ansioso di dimostrare di meritare la sua occasione sul ring, la situazione sfuggirà presto di mano…
RECENSIONI
“Adonis Creed ha tutto, tutto quello che un atleta e un uomo possono desiderare. Ma, a un passo dalla felicità, il passato torna e lo sfida”. Questo, che sembra il soggetto di Creed III, è invece – incredibile dictu – lo spunto di partenza di Creed II, anno 2018. Nulla di scandaloso o inaspettato: la lunga saga di Rocky (6 film “originali” più 3 spin-off comunque prodotti da Sylvester Stallone) insegue pervicacemente una certa semplicità narrativa, con la ripetizione del medesimo canovaccio e l'approdo ad una morale valida trasversalmente di generazione in generazione. Come a dire che in fondo la storia umana si ripete, e che, nonostante gli insegnamenti, siamo sempre e comunque destinati a commettere i medesimi errori. Ma anche che, volgendo lo sguardo al target di riferimento, il pubblico amante del franchise non desidera particolari scossoni. Anzi. Si soffre, ci si esalta, si combatte, ci si incazza... ma lo si fa in una morbida comfort zone in cui tutti sanno già come tutto andrà a finire. Si è soliti parlare del nuovo capitolo delle avventure del figlio di Apollo Creed come di un'opera meno riuscita delle altre, ed è facile capire perché: Michael B. Jordan, non più “solo” protagonista ma per la prima volta anche regista, decide in qualche modo di voltare pagina, di discostarsi dai prodotti precedenti.. E di volare, a conti fatti, troppo in alto, in uno slancio icaresco generalmente poco apprezzato anche perché incompleto e non del tutto coerente. Non è un caso che Stallone qui si sia fatto da parte, continuando a contribuire con la sua Balboa Productions ma dichiarando apertamente di aver avuto delle forti riserve sul tono di Creed III, finito a suo dire in una “zona oscura” (“a dark space”, dall'articolo di Clarisse Loughrey per l'Independent).
Creed III sembra rifiutare la semplicità morale di Rocky (e i suoi fratelli): sia Adonis che il villain Damian “Dame” Anderson sono trafitti da dilemmi morali imponenti, analizzati in fase di script non sempre con la medesima qualità. Mentre quello di Creed Jr. sembra infatti quasi il capriccio di un personaggio scarsamente empatico (meglio: antipatico, un aspetto con il quale prima o poi la saga dovrà fare i conti), con la necessità di esplicitare visivamente il suo dramma (la scena del ring-prigione, emblema di un simbolismo tanto impattante quanto superficiale), il cattivo Dame è una figura inquietante e sfaccettata, mai subordinata o di secondo piano (come sempre accaduto in passato). Per Dame si può apertamente parteggiare, anche perché incarna appieno i temi principali esibiti dal film, il rimpianto e il compromesso. Adonis è tutto precisione e controllo; Dame è rude, combatte come se la sua vita dipendesse da questo, la sua ricerca di vendetta e persino di dominio sono comprensibili. Peccato che poi, di questa sana e stimolante dicotomia, il film non sappia cosa farsene, rientrando fin troppo agilmente nei ranghi del familismo sentimentale e dei buoni (calzoncini bianchi) che sconfiggono i cattivi (calzoncini neri). E si torna, in mancanza di una chiusa migliore, al solito refrain del “Just a man and his will to survive”. Ma il recupero raffazzonato e sbrigativo dei classici valori fondanti, messo così, puzza di mancanza di coesione e coraggio, di volontà di accontentare tutti. Lasciando tutti inevitabilmente insoddisfatti e soprattutto abbandonando lì, in mezzo al ring, un'evoluzione/rivoluzione “in potenza” che un giorno meriterà (meriterebbe?) un regista migliore.