Drammatico, Musicale

CRAZY HEART

NazioneU.S.A.
Anno Produzione2009
Durata112'
Sceneggiatura
Tratto dadal romanzo omonimo di Thomas Cobb
Fotografia
Montaggio
Costumi

TRAMA

Bad Blake, 57 anni e diversi matrimoni falliti alle spalle, è un’ex star della musica country adesso in bolletta e inseparabile dalla bottiglia di whisky che sbarca il lunario esibendosi per pochi spiccioli in piccoli bar di provincia. L’incontro con Jean, giornalista e madre single, lo porterà a rimettere in carreggiata la sua vita e la sua carriera.

RECENSIONI

La canzone è stata già sentita, il ritornello è stato intonato altre volte. Un loser con un passato di passi falsi alle spalle, il fegato ingrossato dall'alcolismo, il mito della seconda possibilità e la provincia americana dei motel, delle stazioni di servizio disseminate nella wilderness, di sale da bowling con musica live la sera. Come in una ballata country dolceamara costruita su poche note e un testo tradizionale, la differenza la fa l'interpretazione, non necessariamente del solo cast. L'esordiente Scott Cooper nel raccontare la storia della sdrucita vecchia gloria country Bad Blake pizzica sì soliti accordi ma evita di imboccare la strada del maledettismo autodistruttivo e sceglie la via di un esistenzialismo intimista e 'naturale' che ricerca la pacificazione. Il dramma risulta così mitigato: non si assiste a nessuna deriva masochistica di maniera ma ad un quieto ritorno in sella che avviene dietro le quinte e non con un trionfale ritorno sulle scene; l'ex-pupillo che ha sostituito Bad Blake nei favori del pubblico e ha spostato su di sé i riflettori del mercato discografico non è un cinico rampante ma un ragazzo di autentico talento e sincera riconoscenza nei confronti del proprio mentore; la storia d'amore con la giovane giornalista dal cuore anch'esso sgualcito non si avvilisce in un'occasione mancata ma assume i contorni di una terapia riabilitativa (per entrambi) il cui buon esito lascia i due protagonisti liberi di intraprendere altri percorsi di vita.
Cooper, inutile negarlo, cuce Crazy heart su misura per l'interpretazione, attoriale e musicale, dell'ottimo Jeff Bridges, cintura perennemente slacciata, fisico debordante e malconcio bilanciato da una recitazione sapientemente trattenuta e da una voce ruvida e calda, e per garantirgli quell'Oscar che gli è puntualmente (e anche giustamente) arrivato, collegandolo idealmente ai due film dall'atmosfera affine con cui ha iniziato la sua carriera, L'ultimo spettacolo di Peter Bogdanovich e Città amara di John Huston. Non se ne fa però troppo assorbire, modulando una sobria coralità e ritagliando in particolar modo opportuni spazi per l'emotività matura e ferita di Maggie Gyllenhaal e l'amicizia solida e saggia del barista Robert Duvall (la cui breve ma intensa presenza nel film, del quale è coproduttore, si trasforma anche in un simbolico passaggio di testimone, avendo egli vinto il suo unico Oscar nel 1983 per Tender Mercies di Bruce Beresford, storia fortemente analoga di caduta e riscatto di un cantante country).
La deferenza per il racconto non imbriglia eccessivamente l'accademismo onesto della messinscena di Cooper che invece sorprende per la sensibilità con la quale usa il ruolo del paesaggio del Texas e del New Mexico: il formato scope ne amplifica la vastità e la bellezza mozzafiato e incastona armonicamente in esso i personaggi. Il ritmo della redenzione diventa così quasi naturale, perde colorazioni troppo moralistiche e si fonde con la consapevolezza del tempo che passa e delle esigenze che mutano col suo trascorrere (ne è esempio la sequenza che vede Wayne rassicurare l'amico sull'opportunità della decisione di Blake di richiamare il figlio abbandonato venticinque anni prima mentre un placido dolly li inquadra intenti a pescare sullo specchio nitido di un fiume). Il paesaggio umano si accorda al respiro di quello naturale: l'assestamento degli errori, dei rimpianti, delle sregolatezze e delle passioni stratificatesi nel corpo-sedimento di Blake ne sventa il rovinoso e irreversibile crollo. Bad alla fine dice di non essere più Bad, in ogni senso, e si riappropria del suo vero nome, Otis. Jean non è più sola, accanto a sé ha finalmente un 'brav'uomo'. Era tempo che accadesse. Anche in questo caso un morbido dolly rivela sotto uno sconfinato cielo azzurro la vallata inondata dalla luce dolce del tardo pomeriggio, scenario all'interno del quale i due riconoscono la giustezza naturale della forse raggiunta serenità.

Jeff Bridges torna ai film d’inizio carriera, immersi nella cultura rurale/tradizionale americana, ed è immenso: un one-man-show che l’esordiente Scott Stewart (attore il cui mentore è Robert Duvall, qui produttore, con cui ha girato quattro film e che interpretò un anziano country-man in Tender Mercies) asseconda con una regia umile, al suo servizio. Si apprezza pure come cantante (come nei Favolosi Baker; ha inciso anche un album nel 2000), con voce maschia e nasale, fra JJ Cale e Kris Kristofferson: interpreta, in gran parte, canzoni scritte da T-Bone Burnett. L’opera è, da un lato, un film-country come tanti e, dall’altro, il consueto racconto sul declino di una star (i conti con il passato, il sex-drugs-rock’n’roll fuori tempo massimo), ma Cooper possiede una marcia in più, perché quella che appare come una messinscena anonima/dimessa, in realtà, intesse alchimie fra i personaggi e descrive con pathos i moti umani. Toccante, ad esempio, il rapporto fra l’anziana star del country e la giovane giornalista, convinta che la dimenticherà e abbandonerà presto; suadente anche il rapporto fra la giovane star Colin Farrell (difficile da digerire come cantante country) e il protagonista, per il modo in cui la prima venera o sottolinea l’importanza del secondo, a differenza di un pubblico giovanile che lo ignora. Peccato per una scena clou mal resa, quella in cui Bad Blake perde il bambino: la sua scomparsa, secondo la narrazione per immagini, non è attribuibile né a Blake ubriaco (non aveva neppure iniziato a bere), né alla sua distrazione (dato che il bimbo si volatilizza in tre secondi). Invece l’evento assume un peso enorme per le parti e i temi in campo e, instradandosi in (altri) percorsi standard (presa di coscienza e alcolisti anonimi), l’opera non trova una chiusura sapida o soddisfacente, per un lieto/non lieto fine abbastanza insulso.