Drammatico, Recensione

CRASH

TRAMA

36 ore nella città degli angeli: storie che si intrecciano e si scontrano.

RECENSIONI

Sceneggiatore di MILLION DOLLAR BABY (peculiarità spremuta all'osso dal battage, malgrado l'estraneità tematica dei due film), ex regista televisivo, Paul Haggis si lancia nell'ennesimo dark side of the moon, il volto effettivo dell'America, l'autopsia dell'animale morente attraverso i singoli organi. CRASH è un crocevia di destini, piuttosto affine al cinema di Iñarritu, centrifugante un ricco procuratore distrettuale, un comandante di polizia nero, due agenti di pattuglia, un regista televisivo, una famiglia persiana, un fabbro messicano, due giovani teppistelli di colore, alcune pistole etc. Il film (notevole successo negli Usa) apre con un rimando di luci incrociate, fari che si sfregiano reciprocamente sullo sfondo di un formicaio umano: la città è un protagonista fisico, massa organica informe che ingloba ogni componente, solcata da continue, gigantesche panoramiche. La casa di L.A. CONFIDENTIAL è abitata oggi da squarci d'istintiva disperazione: un affresco rigoroso nel dosaggio di modi e tempi, gravitante su un montaggio forsennato in picchiata verso lo scontro, ma presto smarrito nel giro (a vuoto) di tutti i suoi limiti tematici. Della struttura di CRASH è presto detto: in una ricetta astuta ma consapevole si concentra una vasta raccolta di requisiti minimi dell'americanità (proprio tutti: da razzismo a terrorismo, da conflitto tra sessi a divario tra classi) senza aggiungere nulla che non sia la decostruzione (ancor più) tradizionale della narrazione. Siamo sulla strada del 'grande affresco corale' ad ogni costo, battuta ormai da registi d'ogni risma e dimensione, ma questo non varrebbe in sé un concerto di sbuffi: i primi mugugni calano quando tutto si rivela stereotipo, la corrispondenza tramica offende nella sua elementarità (il pezzo grosso della polizia ha un fratellino malvivente, che novità, in tempo di conflitti famigliari), il pallore narrativo viene appena velato dalla lacrima da focolare (padre e figlia nel quadretto messicano) e l'unico rovesciamento logico (il persiano, da vittima a carnefice) è quello della nostra pazienza. A fugare ogni dubbio, su un prodotto che vanta comunque solari pregi nel suo carniere [la solida regia culminante nell'incidente d'auto, l'intenso impiego materico degli oggetti (un portafortuna, una scarpa)], interviene proprio l'invadenza della pretesa: quando si vogliono tinteggiare i miseri peccati dell'everyday life conferire ad ogni singola sequenza l'effetto di 'straordinarietà' equivale a tradirsi goffamente, ammazzando così sia intenti che conclusioni. Nel cinema americano, dovute le eccezioni, è raro articolare un discorso, esprimere un concetto e (soprattutto) fare cinema sottile, con felpata discrezione: non importa ciò che dirai (nello specifico: nulla di nuovo) ma devi farlo sempre con voce grossa e solenne. Prognosi riservata anche al lucidissimo cast, costretto in una gabbia di scene madri, di cui il migliore un Dillon beatamente neonazista. Rispetto al film di Eastwood ecco dunque l'unico accostamento possibile: una diffusa assenza delle mezzetinte, che rende lo schianto inevitabile.

La crisi dei modelli d’integrazione culturale e sociale ci ha sorpreso, sulle due sponde dell’Atlantico, con la violenza d’uno schiaffo. Latente da anni, è esplosa con le sommosse nelle periferie francesi, con l’affiliazione a gruppi terroristi da parte di immigrati di seconda o terza generazione, con i cadaveri oscenamente impastati nel fango di New Orleans. La paura, l’ignoranza, la miseria, l’insicurezza dettano risposte fondate sull’opposizione identitaria, l’etnia e la religione a sostituire – talvolta a mascherare – l’antica appartenenza di ceto che si predicava superata nel tripudio di una società monoclasse. Il quadro è apocalittico, e gioca a favore di nuove strumentalizzazioni, sterzate autoritarie, criminalizzazioni del dissenso, divisioni e contrapposizioni fra gli ultimi. Già ventidue anni orsono, in Streamers, Altman aveva tentato un ritratto impietoso delle contraddizioni interne a una società che cova l’iniquità e l’odio razziale, sessuale, sociale (quella stessa drammatica divaricazione a cui Toni Morrison ha dedicato la sua produzione letteraria) mentre pretende di diffondere sull’intero pianeta l’ideologia della democrazia e della libertà; otto anni fa, il registro satirico aveva garantito a Joe Dante un esito straordinario nella rappresentazione d’un Presidente idiota e d’un Governatore paranoico che conducono gli U.S.A. alla guerra civile in nome della purezza razziale (La seconda guerra civile americana). Oggi, ci dice Haggis, la guerra è nelle strade, nelle abitazioni, nei negozi, nelle coscienze: e la risposta possibile, la via d’uscita, è giocata sull’appello alla nostra comune umanità: una scommessa che può riuscire nella favola amorosa d’un padre, nella provvida premura d’una figlia, nel gesto altruista di chi non può veder morire un proprio simile senza cercare di aiutarlo; e può tragicamente fallire nel soprassalto improvviso della paura e dell’ostilità, che scorrono inavvertite anche nei migliori fra noi. Il film ha dalla sua alcune arguzie avaryan-tarantiniane nella sceneggiatura – i dialoghi tra i due rapinatori, segnatamente – e la vis satirica che discende dal Falò delle vanità, col procuratore che intende sfruttare a fini di carriera il politically correct verso gli afroamericani. La struttura circolare, in cui tutti i personaggi si incrociano, è ovviamente quella eternata dai grandi film di Altman, ma nella forma pop e sentenziosa impressale in Magnolia: luci e ombre. Luci della costruzione a incastri che funziona senza strappi, ma meno virtuosistica e azzardata che nel modello, quindi assai meno eccitante. Ombre nelle lezioni di etica e di bontà e di sentimento squadernate quinci e quivi, oltretutto prive del furore narrativo, dei connotati psicologici, della valenza simbolica di cui Anderson le ornava con astuzia; condite, anzi, di espedienti ricattatori, come il ralenti nei momenti di maggiore pathos.