Drammatico, Recensione

COSMOPOLIS

Titolo OriginaleCosmopolis
NazioneItalia/Canada/Portogallo/Francia
Anno Produzione2012
Durata105'
Sceneggiatura
Tratto daall'omonimo romanzo di Don De Lillo
Scenografia

TRAMA

Eric Packer, 28enne uomo d’affari dedito alla speculazione finanziaria, decide di regolare il proprio taglio. Il barbiere è al lato opposto di una New York bloccata dalla visita del Presidente degli Stati Uniti. Nel traffico immobile, la sua limousine scorre lenta, ed è il luogo in cui riceve una galleria di personaggi, lavora, scopa, affronta un presunto complotto ordito ai suoi danni.

RECENSIONI

CARNE E DATI

Cinema della crisi, come Wall Street. Il denaro non dorme mai e Margin Call, come Drag me to hell e Contagion, cinema della Fine, come Melancholia, come 4:44. Last day on Earth: Cosmopolis è satira seria dell'oggi, oggetto perturbante e non riconciliato, esatta fotografia del contemporaneo. L'essenziale è invisibile agli occhi. Cosmopolis conferma: nell'epoca del tardo-capitalismo, nello scorrere statico dei giorni, nella deriva della Fine della Storia, il presente non conosce atti effettivi, l'essenziale è un dato di dati invisibili agli occhi, gioco e simulazione di un 1%, effetto e catastrofe per il restante 99. Eppure, ancora e sempre, Cronenberg fa un cinema di corpi. Adattando il libro di Don De Lillo ne trascrive i dialoghi, tacendo il flusso di coscienza alienato in 3^ persona che struttura il romanzo, restituendo dunque esclusivamente le parole che agiscono nel reale, eludendo ogni ulteriore livello che non sia il presente, il tangibile, il concreto: nel passaggio da carta a pellicola elide le elucubrazioni interiori, le evidenti fughe allucinatorie, le palesi proiezioni mentali. Sono le parole articolate dalle labbra, è la carne ciò che a Cronenberg interessa. Dell'urlata, geniale allegoria del nostro tempo firmata De Lillo non rimangono che i sintomi. Perché, ovviamente, all'analisi della profondità il cineasta preferisce la vivisezione della superficie. Ed è questo il fertile paradosso di Cosmopolis: cogliere lo stato del corpo in un'epoca che ne teorizza la rimozione. 

Gli piaceva il fatto che le macchine fossero indistinguibili. Voleva quel tipo di macchina perché la considerava una replica platonica, leggerissima nonostante le dimensioni, un'idea più che un oggetto.
(Cosmopolis - Don De Lillo)

Se la cultura occidentale, da Platone in poi, si fonda sull'epurazione del corpo in quanto sepolcro dell'anima, in quella prospettiva disgiuntiva di carne (male) e mente (bene) che solo nella modernità trova effettivo superamento, la cybercultura contemporanea, dalla finanza al social network, rivivifica queste basi: ogni evento è informazione astratta, il corpo e il gesto sono al confino, la Storia è leggera, il fisico pesante, oggetto di discorso, rappresentazione, copia. Eric, emblema del contemporaneo, è annoiato dall'umano, nega il presente per un eterno futuro tecnocratico. «Le strade umiliano il futuro». Eric/Robert Pattinson, marcio Candide del tardocapitalismo è, almeno in potenza, post-umano: la tecnica non è più strumento che agisce sul mondo, che lo manipola (Eric, automaticamente, si ferisce ad una mano), la tecnica è strumento che rende il mondo paesaggio interiore dell'uomo. Il doppio, caricaturale movimento che struttura Cosmopolis è esemplificativo: per raggiungere fisicamente il barbiere all'altro capo della città ci vuole un giorno, ma nel suo lento scorrere la limousine ingloba il globo, il tempo, lo spazio. Sfida la deissi: è qui, ora. E se ne fotte. Perché Eric, il piccolo principe dell'oggi, ha comunque il mondo a disposizione. Dentro la limousine, dentro di sé. Eric è l'apice, solo e soltanto la causa primaria dell'intorno nei giorni dei newmedia, dell'informatica, della smaterializzazione del lavoro. Questo lo status quo: in Occidente non c'è dialettica, la forza lavoro non può che essere interiore. Il Capitale, subdolo, non può che opprimere da dentro. E' un luogo dell'anima. L'unico. «Sono persone generate dal mercato, non c'è un fuori dal mercato». Il Capitale anima anche il 99%, lo rende necessario. Non esiste Altro (lo diceva Underworld di De Lillo, lo diceva - riguardatevelo - Sei gradi di separazione, Non è un paese per vecchi lo trasformava in apocalisse). Per questo Eric sopprime l'istinto di preservazione (l'uccisione di Torval/Kevin Durand - il capo della scorta - non è un acte gratuite gidiano, ma un gesto anaffettivo e, soprattutto, capitalizzabile), per questo si autodistrugge, nel sogno osceno di annientare il potere egemone, nella volontà d'accumulo e collasso, nella cupidigia di conquistare l'ultima frontiera: come le manifestazioni violente sono necessarie al sistema, espressioni dirette (anche a livello simbolico: vedi la presenza costante della figura del ratto, come se il paesaggio fosse immagine concreta creata da Eric), Benno Levin/Paul Giamatti, è solo un frutto, la proiezione effettiva (si veda la peculiare costruzione di campo e controcampo in quella scena), l'identità fasulla del proprio (Capitale) desiderio.

Such science and ego combined

Se l'esistenza di Eric è soprattutto informatica, se la cibernetica sdegna la biologia, in Cosmopolis si fa tangibile la confusione - prima del crash, della post-umana fusione - tra soggetto ed oggetto: Cronenberg, nell'asciutta economia della sua sublime messa in scena, coglie il farsi oggetto del soggetto e viceversa, guarda ai volti inespressivi e alle cose con la medesima tensione (si pensi alle ipnotiche inquadratute sulle scarpe nel dialogo tra Eric e Didi Fancher/Juliette Binoche), dà forma alla malattia del contemporaneo. Esprime, sino alla caricatura, lo stare nel mondo d'oggi dei corpi, ambisce a restituire allo spettatore l'esperienza del reale mut(u)ata dai newmedia, la fisicità al tempo della sua teorica negazione. La fede di Eric nel pattern latente che lega l'andamento economico e la natura è fallimentare: è nel suo corpo, in quella prostata asimmetrica, in quella differenza priva di senso, il senso di questa sconfitta. Lo scacco della forza primitiva su un raziocinio via via maggiormente astratto è un topos dei racconti antimodernisti di fantascienza, un luogo comune usurato di ogni narrazione artistica moderna. Non è qui, il genio di Cosmopolis. Ma nel descrivere, nel commutare in simbolo e poi in forma cinematografica, il processo di risemantizzazione del corpo di fronte al suo presunto esilio, la riscrittura che opera il mondo dell'informazione sulla carne. Guardando, come sempre, a McLuhan.

L'algido, sordo silenzio della limousine è sfacciato correlativo oggettivo di una costante distanza dal reale, esperita in un suono innaturale (solo leggermente amplificato dal doppiaggio), in quei dialoghi che (esasperando quanto Pacilio coglieva in The social network) sono parole e emozioni al tempo della chat, forme mutate del discorso, esempi di un'alienazione. La vita è cambiata a contatto con la nuova, invasiva e pervava, tecnologia: il corpo sperimenta l'impossibile distacco da se stesso, il grottesco di Cosmopolis è l'ilare e funerea forma del suo inevitabile fallimento, l'esatta misura di un disagio cristalizzato e restituito crudamente. E in questo spazio astratto, il corpo è un'esperienza regressiva, luogo di bisogno da appagare istantaneamente, neutralizzandolo mentre lo si mantiene costantemente monitorato. Così la scena del controllo della prostata/dialogo con Vija Kinsi/Samantha Morton dice caustica di un'incomprensione esibita del contesto, di un crollo di valori in multitasking, di un malinteso senso del desiderio, di una letterale confusione tra scena e retro(già)scena. Un'alienazione dal reale messa in scena nella scissione tra immagine e realtà (al ristorante, Elise Shifirin/Sarah Godon si chiede disorientata: «E' questo che ho ordinato?»), nell'ipnosi che rapisce lo sguardo sulle cose e si trasforma in gratuite e esatte inquadrature sugli oggetti, nel puro gioco del linguaggio (la metafora del ratto come moneta corrente viene depotenziata in calambour all'interno della limousine), in un personaggio che riduce ogni espressione umana a proprio feticcio: Eric, monumento dal volto muto nel corpo divistico contemporaneo (Pattinson è l'idolo teen di Twilight), sceglie i partner sessuali per parlare di sé, per esprimersi, sceglie una moglie poetessa (e ricchissima) per fingersi esistenzialista, è un collezionista (emblema del feticismo applicato al narcisismo) che sceglie i quadri di Rothko solo per posizionarsi prepotentemente nel mercato delle idee, ascolta Satie (musicista diverso, per antonomasia) e rap sufi solo per garantire la propria differenza intellettuale, per mimare una ricercatezza (vedi qualsiasi pagina personale di Facebook), dice frasi apodittiche e finali scollate dall'umore del contesto, posa prima di vivere, si costruisce come immagine prima di sperimentare, burattino di se stesso in una teatralità malata, figlia di una realtà ipermediata e autoreferenziale (fino all'ultimo: si veda la straniante scena finale, tra un Brecht autistico e un Pinter aumentato), dove ogni gesto è già spettacolo (e il terrorista pasticciere/Mathieu Amalric è solo un esempio lampante, la vampirizzazione della Tv solo sciacallaggio quotidiano).

Dice Cronenberg: «Eric è un rappresentante del Capitalismo, ma un uomo sottosviluppato». L'incapacità risibile, esasperata di appartenere al contratto sociale sposa la sua assenza di coscienza: Eric si immerge nei dati. Opera, non pensa. Fluttua. Non studia, non legge, non interpreta. Flutta all'interno del suo sistema nervoso/cybernetico. Obbliga altri a pensare. Ha un'impiegata addetta alla Teoria. In un modello stilizzato dell'oggi il sapere non concerne la memoria, non ha sede nel cervello, ma al di fuori di esso. Nella navigazione online, ad esempio. Così è consequenziale che ad aleggiare sia un'atmosfera di cospirazionismo (il sentimento centrale nelle opere di un altro genio profondamente contemporaneo: David Lynch): in questa eterna simulazione che è il presente, si ha la sensazione che esista una realtà totalmente differente da quella percepita, si vibra alla tensione costante che qualcosa penetri il velo e sostituisca la realtà all'iperrealtà, battezzando con Baudrillard il delitto del reale come imperfetto, in quello squarcio teorizzato da Matrix e The Truman Show, e reso concetto di massa da blockbuster ottusi come, ad esempio, Transformers 3.  Come in New Rose Hotel, che di Cosmopolis è il diretto antecedente, ogni possibilità catartica è negata: gli eventi sono solo parole, Cronenberg sabota, taglia o ovatta ogni trauma, non crea sfoghi per lo spettatore. Il suo errare antinarrativo, come quello di Crash, snerva, la sua inconcludenza toglie il respiro, lascia spazio allo spettatore, crea fastidio. Cosmopolis, teatro dell'assurdo (iper)reale, è un oggetto respingente, esperienza vertiginosa del vuoto, fluviale scialo di parole che formano sentenze non comunicative, che lasciano posto, infine, all'attesa di un silenzio definitivo: scevro da compromessi, Cosmopolis inscena nella sua stasi implosa lo sciocco, tragico essere al mondo della nostra carne. E addensa in simboli verità sul presente, filmandole con chirurgica atarassia contemporanea, asciugando radicalmente il linguaggio cinematografico fino all'ovvietà del campo/controcampo, giocando su scarti e disattese, insistendo e deformando ogni annichilente abitudine spettatoriale, provocando con un'efficacia e una parsimonia espressiva ormai magistrali. Prodotto dal genio di Paulo Branco, musicato al solito da Howard Shore con spettrali, ripetitive e tenui accensioni musicali, fotografato da Peter Sushitzky, che sa restituire la dimensione organica di ogni immagine, Cosmopolis è l'istantanea di un presente in perenne attesa di uno schianto: infinito perché in cerca di una chiusura nello spettatore, è seme del turbamento, agonia che non conosce risoluzione, stilizzazione incompiuta, dissoluta, repellente del nostro mondo, del nostro oggi, opera insieme teorica, fisica, politica.

“Il nuovo credo della cultura: nessuno morirà ma vivrà per sempre nel flusso di informazioni”; “Non hai mai la sensazione che non tocchiamo la realtà?”: David Cronenberg fagocita magnificamente il cinismo pungente degli aforismi di Don DeLillo (romanzo proustiano del 2003), ne fa un Pasto Nudo (altro testo infilmabile restituito magistralmente), e lo risputa nella surrealtà allegorica di Crash con la complicità delle note di Howard Shore, nella realtà virtuale e in forma di pamphlet di Existenz, nell’allegorica nuova carne (stimoli corporei vari), nella disfatta dello “scienziato” di tutto il suo cinema (la presunzione d’onnipotenza). “Il cyber capitale non è più narrativo, ha perso la sua forza”: ecco composta la miglior opera cinematografica sulla Crisi del Capitalismo (=Eric), in quanto macchina votata alla deturpazione dell’anarchia che crolla di fronte all’imperfetta Perfezione della Natura. Le promesse del Capitale sono false perché, puntando all’armonia, non contemplano variabili quali le prostate asimmetriche; perché, se hanno fatto del tempo un bene aziendale annichilendo il Presente, le proteste delle masse finiscono per rivolgersi al Futuro venduto in scatola; perché viaggiano per conto proprio rispetto alla realtà, come una limousine di lusso nel cui abitacolo vige un silenzio irreale. L’atmosfera angosciante avviluppa le viscere ma è anche beffardamente ironica (il pasticciere terrorista di Mathieu Amalric) o rivolta agli organi sessuali, per un contrasto/amalgama di elucubrazioni mentali e funzioni fisiologiche che, spesso, riassume la magia del cinema cronenberghiano, non più portato alla platealità scenografica dell’orrore ma a terrorizzare con il mood e i concetti, qui ottenuti riportando tutti gli eventi a dati privi d’emozione (per l’autore, il dialogo finale di venti minuti fra Pattinson e Giamatti  è stata la sequenza più difficile che abbia mai girato).

1. Parole visibili, immagini leggibili

Non si tratta di un adattamento nel senso comune del termine. Non perché si ha a che fare con un autore di grande caratura per cui si può parlare di 'film liberamente ispirato' (vedi Coppola con Conrad), anzi. Il testo di partenza non è neanche lo spunto per la germinazione artistica di un autore da sempre abituato a riscrivere opere. A differenza dei casi de Il pasto nudo, Inseparabili o Spider, Cosmopolis opera un lavoro di riscrittura dalla pagina scritta allo schermo cinematografico senza compromessi. Più che di un adattamento si tratta di una vera e propria trasposizione, uno scivolamento di un'opera da un linguaggio a un altro, senza cambiare quasi nulla delle sue peculiarità. Il romanzo di Don DeLillo - come in Underwolrd, produttore di immagini - funge da testo matrice pronto alla riproduzione, alla clonazione, si pone come editio princeps predisposta alla figliazione, in questo caso cinematografica. Il lavoro di Cronenberg - si dice che abbia redatto lo script in sei giorni - è più che fedele, quasi compilativo, e, se possibile, radicalizza ancora di più l'esperienza del protagonista e, soprattutto, quella del lettore/spettatore: i pochi cambiamenti operati sono volti ad estremizzare ancor di più la linearità del libro, tagliando il più possibile le scene all'esterno dell'auto (accessoriata per essere un micromondo contenente l'intero universo del protagonista), e lasciando a Benno Levin -nemesi non solo di un uomo ma di un'intera generazione - esclusivamente lo spazio finale, con tutta la sua corporeità (non a caso esterno all'automobile), privandolo delle 'memorie' presenti nel libro.

2. Have you seen cybercarne?

Ci si trova di fronte a una nuova frontiera dell'estetica cronenberghiana, forse la più radicale, dove il formalismo respinge la materia annullando ogni sensazione corporea. La programmatica verbalizzazione di ogni azione ne annulla la sua portata materica, avanzando nel mondo dell'astrazione, dove tutto è confuso non perché incandescente, ma perché sepolto in un magma freddo, metallico, elettronico. Astratto come i soldi del cybercapitale, come il tempo da questi governato, come il futuro calamitato da un mercato le cui regole aeree annullano ogni percezione della realtà. Come l'Espressionismo Astratto americano, eletto a riferimento estetico principale: il Pollock dei titoli di testa e soprattutto il Rothko citato nella parte iniziale del film (sotto cui scorrono anche i titoli di coda), divengono simbolo della vita reale seppellita in profondità da ampie pennellate incorporee, sovrascritture indefinite che rendono l'esistenza indeterminata, catapultata nelle viscere del quadro (e della memoria) da una virtualità annullante, che del mondo sensibile cancella anche il ricordo.
La materia viva che un tempo emergeva da ogni fotogramma, sottoforma di mutazione, lacerazione o alterazione, luogo del senso per eccellenza della poetica cronenberghiana assurge a capro espiatorio estetico, vittima sacrificale di un discorso sull'immagine che copernicanamente ribalta apparentemente ogni paradigma, camuffando i postulati del passato per riproporli in maniera interstiziale. Rimane una resistenza ardua a un mondo in cambiamento, rimangono quegli episodi fulminanti di violenza, che, se in passato erano sintomo della deformità irrazionale dell'essere umano, ora rappresentano l'unica e l'ultima forma di umanità possibile.