TRAMA
Giovanni Manzoni è un mafioso italo-americano pentito che ha testimoniato contro i suoi capi. Vive quindi sotto copertura insieme alla sua famiglia grazie al programma di protezione testimoni dell’FBI. Trapiantata in Normandia, la famiglia Manzoni cerca di abituarsi alla nuova vita, ma le vecchie abitudini sono dure a morire.
RECENSIONI
L’ennesima famiglia inserita nel programma protezione testimoni dell’FBI. Un regista, Luc Besson, curioso, dall’innegabile talento, capace di pensare in grande, ma dai risultati sempre inferiori alle ambizioni. Le premesse con cui ci si avvicina a Cose nostre – Malavita non sono delle migliori, invece il risultato sorprende piacevolmente. Come sempre a fare la differenza non è tanto il cosa (in fondo, lo ribadiamo, tutte le storie sono già state raccontate) quanto il come. E Luc Besson contiene l’ansia da prestazione patinata che lo contraddistingue e trova il giusto equilibrio nel dosare gli ingredienti a disposizione.
A partire dall'ottimo cast che affianca un mostro sacro come Robert De Niro, misurato e divertito, una ex-diva, brava, come Michelle Pfeiffer, in auge fino a metà degli anni '90 e in cerca di un rilancio definitivo, e due giovani, Dianna Agron e John D'Leo, dal sicuro avvenire (soprattutto la Agron, già capo cheerleader nella serie televisiva 'Glee'). Se il cast è fondamentale per la resa dei personaggi, a permettere il coinvolgimento nella trita vicenda è però la regia, in grado di trovare un non facile equilibrio nei toni creando un buon amalgama tra il grottesco delle situazioni, il sottotraccia di malinconia, i cliché della mafia, il nero dello humour e l'action incombente.
In fondo quella messa in scena da Besson è una sorta di famiglia Addams di stampo mafioso, con regole e codici di comportamento agli antipodi da qualsiasi famiglia tradizionale, pur nel tentativo, vano, di omologarsi a un modello conforme alla media. La sceneggiatura gioca con brio su contrasti geografici e culturali cavalcando stereotipi e luoghi comuni: da una parte gli italo-americani debordanti e caciaroni, dall’altra i francesi di provincia con la puzza sotto al naso e vagamente intellettuali. Il cibo è un leit-motiv su cui si basano molte gag e sottolinea ulteriormente il divario tra la voglia e il bisogno di integrarsi dei personaggi e l’emarginazione a cui sono irrimediabilmente destinati.
Irresistibile De Niro chiamato a commentare nel cineclub cittadino, in qualità di scrittore d’oltreoceano, la proiezione di Quei bravi ragazzi. Sequenza che racchiude con ironia innumerevoli collegamenti citazionistici: il romanzo di Tonino Benacquista, da cui il film deriva, si intitola per il mercato americano “Badfellas” (in Francia e in Italia, invece, “Malavita” e allora perché quel brutto titolo per la trasposizione cinematografica nostrana?), e rimanda a “Goodfellas” (titolo originale di Quei bravi ragazzi), di Martin Scorsese, che qui figura come produttore esecutivo. Decisamente più fiacco il finale, che si limita a concludere la vicenda puntando su una sbrigativa quanto improbabile resa dei conti (imperdonabile trovarsi ancora davanti al clic a vuoto di una pistola, con un personaggio che si salva solo perché il rivale di turno ha finito le munizioni). Nel complesso, però, l’insieme gode di organicità e intrattiene. E non pretende di fare altro.