TRAMA
Un macello di Budapest. Un uomo e una donna inadatti alla vita si incontrano in sogno sotto forma di cervi.
RECENSIONI
Due cervi. Il cervo maschio è Endre, uomo maturo e divorziato, responsabile finanziario di un macello, con una mano offesa; il cervo femmina è Mária, donna incartata in sé, addetta al controllo qualità, incapace del contatto epidermico con l’altro. All’inizio, però, c’è solo la musica di Adam Balazs: apriamo gli occhi e vediamo il bosco innevato, quindi i cervi, siamo già nel sogno. Il titolo subisce un’inversione: non corpo e anima, ma anima e corpo, perché qui l’anima viene prima e sul corpo si riflette, dialoga con esso mantenendo il suo primato. Nell’incipit il cervo maschio è solo poi, gradualmente, si gira e raggiunge la femmina: avviene un primo animalesco contatto, il cervo poggia la testa sul corpo della cerva, ma essi al contrario del paesaggio non hanno tratti fiabeschi, sono bestie realistiche. Ildikó Enyedi prende una figura della favola e, seppure onirica, la precipita nel concreto: gli animali ottengono una rappresentazione materica, non stilizzata. Sono parti tangibili di una fiaba. Stacco di montaggio: animali al macello. L’inquadratura dell’occhio di una mucca diventa la soggettiva del suo sguardo sugli uomini. Siamo nei pressi dell’inevitabile: come in Georges Franju, in Le sang des bêtes, ma qui viene omesso l’istante dell’uccisione degli animali, con un gesto pudico, però ne vediamo minuziosamente la macellazione. L’occhio vivo della bestia diviene occhio morto. Il racconto opera subito un parallelismo tra i cervi sognati e i bovini in attesa, introducendo il suo discorso che funziona per associazione: i cervi sono liberi ma accostati alle bestie prigioniere, se queste aspettano la macellazione anche loro sono chiamati a evitare una fine. Uomini e animali, nel macello carnefici e vittime, di fatto sono uniti nella medesima condanna. Il film è il percorso per sfuggire: la strada per arrivare a toccarsi è ciò che sostanzia On Body and Soul che, al termine dell’inizio paradigmatico, mostra lui e lei illuminati dallo stesso sole. C’è uno spiraglio, ma il cammino è doloroso. Al contrario dell'apparenza, infatti, anche i cervi non si trovano subito: si cercano, sfiorano e lasciano, l’uno si espone mentre l’altro si ritrae, l’uno attraversa il ruscello e l’altro lo segue. All’atto di rottura tra Endre e Mária, il maschio corre a cercare la femmina ma non la trova: perché non stanno preparando un incontro, ma la complessità di un incontro.
Nella vita “vera”, intanto, Mária ricostruisce nel privato le conversazioni eseguite nella routine lavorativa: attraverso una saliera o i pezzi del lego, essa ripete i dialoghi ma li depura dalla formalità, rendendoli sinceri, inverando i rapporti umani. Dalla ricostruzione teorica occorre passare alla prassi, superare la forma delle situazioni per giungere al nocciolo del reciproco dolore. Non a caso la regia inquadra forme e figure di sbieco, non esattamente, fornendo dettagli parziali e non il quadro intero: Endre e Mária devono ancora trovarsi, incastrarsi, non hanno una centralità e il loro scombaciare viene iscritto nel fuori quadro dell’immagine, nell’essere periferici dentro l’inquadratura. Il muro si incrina quando avviene un atto illegale, lasciato fuori campo, che serve solo a introdurre il ruolo della psicologia - in una psicologa come condensato di erotismo negato -, a produrre, quindi, una prima ipotesi di contatto. Endre e Mária hanno fatto lo stesso sogno, ma non lo capiscono: «Facevo quello che fanno i cervi: niente di particolare», dice lui, che non può riconoscere l’ignoto. È così che la femmina prova ad avvicinare il maschio: Mária inizia a cercare Endre ma si trova fuori luogo, non governa ciò che non ha mai conosciuto, dunque è catatonica, costretta al suo intimo aggrovigliato, può solo recitare un corteggiamento. Le frasi sentimentali senza pathos, dette con teatralità spiazzante, sono la fonetica di un disagio: «Ti chiamo stasera così ci addormentiamo insieme», è solo enunciazione formale. Mária tenta allora un’istruzione autodidatta: per ottenere l’avvicinamento inizia una formazione al contatto, proprio cutanea, toccando prima del cibo poi un animale, quindi esplorando i contatti nel mondo intorno, attraverso gli sguardi nel parco in cui vede e viene riguardata, infine con un peluche. Ma è troppo tardi, troppo lontana dall’altro, e per la costruzione dell’intimo non c’è formazione possibile: toccare non si impara a tavolino, non si rende lezione. La donna è di nuovo sola. Non resta che darsi la morte: si taglia le vene, si auto-macella come gli animali, allestisce un suicidio stoico in quanto male minore. La regista la tiene sospesa per alcuni attimi insostenibili, lascia il sangue zampillare. Ma è un suicidio imperfetto, la musica si inceppa. Ed è proprio l’avvicinarsi della fine che porta al contatto definitivo: quando Endre la chiama Mária finge di non stare morendo, mantiene una formalità anche in mezzo alla morte. È qui, all’improvviso, che avviene il rovesciamento: il dolore non è più nell’inadeguatezza ai rapporti umani ma nel terrore della loro fine mentre si aprono al sentimento, la paura di “smettere di amare”. Solo ora, eseguita la mimica suicida, si può veramente toccare. E i cervi possono sparire.
Ildikó Enyedi coniuga il film in fabbrica alla surrealtà “palpabile” del leitmotiv onirico: da una parte il grigio quotidiano di un macello, dall’altra gli innesti sognati sempre in pillole brevi, quadri a poche pennellate, per poi tornare alla cornice concreta. Perché è l’interferenza onirica che rafforza l’asperità del vero. La cineasta non si limita però alla parabola dei freak che si trovano, all’incontro tra due solitudini: nel suo rimestare trova una peculiarità che deriva proprio dal disturbare il reale, dal dialogo sfacciato tra plausibile e fantastico. La sua è metafora evidente: incarna l’autismo relazionale nella mano offesa e nell’incapacità di contatto, prevede dialoghi palesi (a Mária non piace il suo nome, non vuole sentirlo pronunciare, assegna solo B al controllo qualità), fa retorica dei simboli, ci trascina sull’empatia coi protagonisti (come non amare questi due inadatti). E insieme come esercizio di cinema dell’immaginazione funziona, nel suo onirismo senza pudore, nello scarto dell’opportunità realista, frequentandola, in favore di quella favolistica. Che male c’è nel fidarsi di una storia? È forse obbligatorio il cinismo? Non è lecito pensare un lieto fine? Ildikó Enyedi si dimostra indefessa ottimista: dice della difficoltà del contatto, dell’impossibilità dei palliativi, del dolore che porta all’essenza. Ma anche di una predestinazione amorosa. Per questo fa sparire i cervi “trasferendoli” nei personaggi. Lascia solo il paesaggio, al nostro sguardo, prima dello schermo bianco e non nero: ci chiama, come i cervi, a svanire non nel buio ma nella luce, attraverso una concretizzazione, a dissolvere la materia dei sogni per avere incarnato la sostanza in realtà.
Orso d’oro al Festival di Berlino 2017.