Biografico, Recensione

CONTROL (2007)

Titolo OriginaleControl
NazioneGran Bretagna/U.S.A./Australia/Giappone
Anno Produzione2007
Durata122'
Sceneggiatura
Tratto dadall’autobiografia “Touching from a distance” di Deborah Curtis
Fotografia
Montaggio
Scenografia
Costumi
Musiche

TRAMA

La vita di Ian Curtis, cantante dei Joy Division, dall’incontro con la futura moglie Debbie fino al suicidio, a 23 anni, alla vigilia del primo tour americano._x000D_

RECENSIONI

Il concerto dei Sex Pistols alla Lesser Free Trade Hall di Manchester, il 4 giugno del ’76, è uno dei grandi miti del rock. Nonostante sia stato visto da non più di una trentina di persone (un giornalista, David Nolan, ci ha pure scritto un libro), pare che lo Zeitgeist musicale vi abbia concesso una delle sue rare epifanie. C’era Morrissey, allora capo del fan club locale dei New York Dolls, sei anni prima della fondazione degli Smiths; c’era Tony Wilson, poi creatore della Factory Records; Devoto, Shelley e Diggle dei Buzzcocks; Mark E. Smith, poi leader dei Fall; Sumner e Hook, di lì a poco chitarrista e bassista dei Joy Division. Qualche settimana dopo, i Pistols sarebbero tornati alla Lesser Free Trade Hall davanti a un pubblico assai più numeroso. Ian Curtis, lì in mezzo agli altri, avrebbe pensato, come quasi tutti gli altri, di formare un gruppo. Anton Corbijn, navigato fotografo e regista di video musicali, ci mostra l’Evento riflesso sul volto del bravo Sam Riley e lo usa, esattamente come ci si aspetterebbe, per illustrare la nascita della band (Warsaw prima, Joy Division poi), con il riserbo e il candore paratattico che è la cifra stilistica di questo Control: prima Ian sente dire ai suoi due amici che cercano un cantante; poi i Pistols irradiano la sala con la vibrazione primordiale che feconderà il post-punk e la new wave di Manchester; poi Curtis raggiunge i due amici fuori dal concerto: “dicevate che state cercando un cantante?”, mentre il nome dei Sex Pistols, a grandi lettere sull’insegna luminosa del locale, chiude stretta la didascalia. I quadretti illustrativi di Corbijn restano rigidamente fedeli a due cose: una notevole economia narrativa, prossima all’allegoria; e una composizione piana, discreta e svelatamente convenzionale. La prima impone una selezione strettissima di temi (le influenze musicali, l’amore per Debbie, la band, la nascita della figlia, la malattia, l’amore per Annik, la crisi, il suicidio) e la loro sintesi in forme esemplari e semplici. La seconda è pura linearità, ineluttabile e pre-vista. Le illustrazioni s’accostano l’una all’altra con ritmo piano e assenza programmatica di ogni climax, profondità, digressione o sfumatura. Il film adotta con fermezza un punto di vista discreto ed esterno alla storia della band (probabilmente anche a causa dell’origine del soggetto: il libro della moglie Debbie), che è riassunta e semplificata in pochi episodi tipici (si potrebbe dire che i Joy Division e la loro musica mancano quasi del tutto dal quadro). Così anche la vita di Ian Curtis – che è il cuore della rappresentazione - è miniata per archetipi. Questo approccio, servito ottimamente da un bianco e nero che è allo stesso tempo distaccato e singolarmente empatico come il suono del meraviglioso Unknown Pleasures (che tanto deve al produttore Martin Hannett, sacrificato dallo script ma non da questa recensione), scade però in frequenti automatismi e qualche banalità di troppo. Come le nozze di Ian e Debbie, rese con l’accostamento di due baci, prima sul prato (quando lui chiede a lei di sposarlo), poi in auto dopo il matrimonio (con lei in abito bianco e un trito scampanio nuziale a commento sonoro). O la prima apparizione di Annik, isolata al centro dell’inquadratura in mezzo al pubblico, con intorno un’aura invisibile che annuncia però tutta la prevedibilità degli sviluppi. O ancora la prima crisi coniugale, accompagnata proprio da Love will tear us apart. O la scenetta del lutto, dopo la morte di Ian, con Peter a capo chino sul tavolo di un bar e Annik che mette il braccio intorno alle spalle di Bernard. L’umore della pellicola, tutt’uno con la sua struttura, resta tuttavia parecchio interessante, come anche il freddo amore fotografico per spazi linee e luci, persino quelle di un palo della corrente e dei suoi fili a raggiera contro il grigio del cielo di Manchester e dei suoi palazzoni popolari.

Non c’è artista celebre, problematico e precocemente scomparso che non abbia il suo biopic e Curtis non fa eccezione; avvolto in una confezione obiettivamente più attenta del solito, immortalato dal b/n dell’epoca (d’altronde, nessun reperto dei JD vanta il privilegio del colore), il film infoltisce da subito l’archivio del maledettismo; impaginando diligentemente le splendide note del gruppo e associandole puntualmente alla vita della star (ogni peripezia di Curtis – la morte della giovane epilettica, la rottura con la moglie – è diretta ispirazione per qualcuna delle sue canzoni, argh), l’opera non esce mai dal film a tappe e propone peraltro raccordi palesemente sbagliati. La tremenda epilessia del protagonista, tra le ragioni principali del suicidio, è prefigurata dalle movenze di Sam Riley che, sfruttando il phisique du role e gli effettivi comportamenti di Curtis sul palco, si muove nervosamente anticipando la crisi che non tarderà ad arrivare. Segni allo spettatore, sulla malattia ma anche in campo sentimentale, che la dicono lunga sull’andazzo del film rendendolo poco interessante; è tutto spiegato e reso esplicito per chi non avesse capito (una scelta curiosa, vista l’oscura sfuggevolezza che vela il percorso dell’artista) e strenuamente incatenato alla trama. Anton Corbijn, proveniente dal videoclip, sa girare un film ma soffre anche parecchie acerbità nella scelta delle prospettive; se certi squarci sono involuti e ribadiscono solo la dannazione del protagonista, come i primi piani sulle mani nodose, altri invece colpiscono nel segno, vedi la nube nera che si leva nel finale e porta lo skyline industriale inglese a omaggiare la tragedia. Control si limita all’esposizione dei fatti; ci sono gli schizzi, manca il quadro.