TRAMA
Luke è uno stuntman la cui vita viene sconvolta quando scopre di essere diventato padre. Per affrontare le difficoltà economiche a cui deve far fronte inizia a rapinare banche.
RECENSIONI
Someday my pain
Someday my pain will mark you
Harness your blame
Harness your blame, walk through
(Bon Iver, The Wolves Act I & II)
L'assenza del padre, cuore pulsante di tanto cinema americano, trova in Come un tuono il suo racconto epico. La paternità – occultata, riscoperta, rinnegata, sostituita, rifiutata – è il motore di un film la cui ambizione è pari solo alla sua urgenza narrativa: mettere in scena l'intero arco di evoluzione di tre generazioni condannate dai propri legami di sangue. Ci sono i padri dei due protagonisti principali: quello di Luke Glanton, di cui sappiamo “che non c'è stato, e guarda il risultato” e quello di Avery Cross, presenza costante, guida e mentore sulla via di una rettitudine piuttosto ambigua. Ci sono Luke e Avery medesimi, l'uno ignaro di essere padre se non per pochissimi mesi della sua vita, l'altro incapace di amare il figlio (e a loro va aggiunto Kofi, padre surrogato di un bimbo non suo). Infine, ci sono AJ e Jason, la terza generazione, quella che chiude il cerchio e si lascia alle spalle il posto oltre i pini, ovvero Schenectady: entrambi ripercorrendo, quasi per il richiamo ancestrale del sangue, le orme dei padri.
Il respiro è ampio, coprendo quindici anni di vita di due diverse e sostanzialmente separate linee narrative, ma la messa a fuoco di Cianfrance è ossessiva e claustrofobica: la sua macchina da presa tallona i protagonisti senza distanza di sicurezza, li inchioda nell'inquadratura come il destino li mette all'angolo. Fin dalla notevole sequenza d'apertura, il pedinamento di Luke attraverso la fiera restringe il campo alla sua sola figura, isolata dall'ambiente come Luke sarà emarginato da qualsiasi contesto sociale. Lo sarà in chiesa, durante il battesimo di suo figlio, nascosto nell'ultimo banco; lo sarà fino alla (sua) fine, nell'incontrare quel fato che bussava alla porta già nella colonna sonora magniloquente, come in una sinfonia di Beethoven. Avery non è meno solo: distrugge i suoi legami sul lavoro, sceglie di non nutrire quelli con la sua famiglia, la mdp lo segue quando tutti i sorrisi forzati lasciano spazio soltanto a una maschera di tensione. A condannarli è il ruolo che si sono scelti e da cui non sono in grado di evadere, perché altro non sanno fare: il bullo motorizzato e il poliziotto primo della classe, due archetipi di virilità che non lasciano spazio per dubbi e messe in discussione. Archetipi, questi, prettamente cinematografici, di cui Cianfrance sottolinea il fallimento disinnescandone sullo schermo le potenzialità spettacolari: i generi sono desaturati e disturbanti, l'heist movie del primo segmento e il thriller poliziesco del secondo vengono prosciugati di ogni carattere hollywoodiano.
I primi due atti della tragedia, da soli, sono perfettamente complementari e compatti, saldati insieme da una sequenza action magistrale che sposta il testimone della narrazione con audacia. Ma l'intento di Cianfrance non può fermarsi lì, al racconto speculare di due uomini privi di scampo: l'ultimo atto (il più debole e il più mélo, seppure cerebrale) si rende necessario per un'opera che, come in una disperata genealogia uscita dalla penna di Emile Zola, disseziona scientificamente i danni ereditari della paternità fallita. Il terzo segmento è il raccordo emotivo sullo sguardo mancato dei padri: tutto il film imbastisce rigide geometrie di sguardi soltanto maschili (e dove la tensione narrativa dell'autore si allenta è proprio nel delineare le figure femminili, smaccatamente abbozzate e puramente strumentali). “Non guardarmi”, grida Luke nell’ultima rapina; “non mi guardare” gli fa eco il figlio quindici anni dopo, di fronte a Avery, il quale, a sua volta, dichiara alla terapista di non riuscire a guardare suo figlio; sono coperti gli occhi della mamma nell’unica foto che testimonia l’esistenza effimera di una famiglia mancata. Se in Blue Valentine una sola affermazione (“Let’s be a family”) costringeva i protagonisti in una parvenza di famiglia troppo esile per durare, in Come un tuono a marcare i figli è la dolorosa negazione di quella frase. “Non raccontargli di me”: la vergogna di Luke scivola per osmosi negli occhi di Avery, e segna due vite a venire. Cianfrance pecca di ambizione e talvolta sbanda, cita in modo letterale, un po’ gratuitamente, il suo nume tutelare John Cassavetes (nella sequenza della spaghettata improvvisata a casa Cross, che ricalca quella di Una moglie) e si concede qualche ridondanza di troppo (in un film dove tutto accade due volte, la vertigine a volte risulta forzata), ma la sua macchina da presa è lucida e inamovibile, puntata dritta sul punto buio che sta al di là dei pini, nel cuore del grande romanzo americano.
Come il suo (meraviglioso) racconto, vo(l)tato ad inattesi cambi di personaggi e di rotta (due, se si tiene conto anche della proiezione quindici anni dopo gli eventi), l’opera di Cianfrance è spiazzante se confrontata al precedente Blue Valentine: c’era sempre Ryan Gosling, che reitera il tipo di Drive, delinquente per amore di donna e figlio, ma le cifre stilistiche dominanti erano le ellissi, l’espansione dei dettagli, l’intrusione di flashback nell’elaborata drammaturgia. Qui, al contrario, c’è una continuità prettamente tematica, come se Cianfrance ribaltasse lo specchio e raccontasse, dell’opera precedente, la storia dal punto di vista del padre naturale e dei figli (in Blue Valentine Dean e Cindy erano sposati con figlia, e i flashback rivelavano che la figlia era di un altro uomo). Il fil rouge: uomini che faticano a fare i padri, tenuti a distanza dalle madri. Cianfrance ridona dignità alla mascolinità senza passare dal machismo, affidandosi anche alle lacrime. Il fattore spiazzante risiede nei modi più tradizionali, pur nella continuità di un cinema fondato sui volti e la ricerca di realismo, di cui sono emblema le magnifiche scene “d’azione”, girate tradendo le convenzioni hollywoodiane: quella nel bosco, con montaggio parallelo in cui Luke, su moto ad alta velocità, osserva il meccanico che lo tallona; quella in cui la polizia insegue Luke dopo la rapina, ripresa dal punto di vista dell’auto delle forze dell’ordine, usando stilemi da reality alla "Cops". Il film inizia come film poliziesco e, a sorpresa, finisce in racconto tragico ed esistenziale, dove il destino chiede il conto e tiene legati padri e figli, anche oltre la morte. Mentre Blue Valentine viveva di annotazioni illuminanti, Come un Tuono vive della corposità del racconto in sé, del modo in cui è sviluppato, dei significati che schiera nelle sue evoluzioni. Il titolo originale è la traduzione, in inglese, della parola Mohawk “Schenectady”, cittadina dello stato di New York dove è ambientata gran parte dell’azione; quello italiano, invece, fa riferimento a una frase riferita a Luke: “Se guidi come un fulmine, ti schianti come un tuono”. Fondamentali il tappeto sonoro di Mike Patton e la fotografia dello stesso collaboratore di Steve McQueen.