TRAMA
Irlanda, 1924. Distrutto per la scomparsa, a breve distanza, di un figlio e della moglie, l’agricoltore Harry decide di farsi un nemico. La scelta cade su George, ma anche l’altro figlio di Harry, Gus, e la sua giovane moglie saranno interessati dalla stramba “crociata”.
RECENSIONI
L’odio è un grande albero che svetta, maestoso e colmo d’oscura minaccia, nel cielo grigio e trasparente di un’Irlanda mai così balcanica: alimentato da una pioggia di lacrime, s’infrange solo per espandere se stesso ed il proprio potere (la costruzione delle bare). Paskaljevic, tre anni dopo “La polveriera”, torna a parlare di conflitto, questa volta considerato, più che nel suo svolgimento, nei suoi effetti (il dolore di Harry deriva dalla scomparsa del figlio nella guerra civile, alla base anche della morte della madre del ragazzo) e, in misura ancora maggiore, nella sua origine. Lo spunto è degno del teatro dell’assurdo: la rivalità, peraltro univoca, che lega Harry a George, originata da una scelta meticolosa (poiché, come dice il protagonista, “il valore di un uomo si giudica in base ai nemici che ha”), sembra uno scherzo. Tragico, nelle sue conseguenze, ma pur sempre uno scherzo: ogni guerra, religiosa, politica, privata, non sorge per una ragione, ma per un pretesto possibilmente incredibile, che cela un malessere incurabile, troppo profondo per poter essere semplicemente messo a tacere. Il conflitto, una volta innescato anche solo da una delle parti, non concede sconti, colpendo duro da entrambi i versanti della barricata, senza operare distinzioni tra guerrieri e non belligeranti, e coinvolgendo i combattenti al punto da cancellare dalla loro mente un’eventuale, remota speranza di serenità (Harry, che non esita a sacrificare la felicità di figlio e nuora, e quindi la sua stessa, in nome della guerra contro George). Il film si chiude su una nota di serenità (la fuga dei giovani, finalmente liberi dal soffocante giogo di un odio per loro incomprensibile), ma allo stesso tempo ribadisce l’infallibile perpetuarsi dell’odio, e stavolta fuori di metafora. Fiaba grottesca e nera, che trae dal paesaggio irlandese un potere suggestivo difficile da eguagliare, “How Harry Became a Tree” ha una rara capacità di mescolare echi tragici e spunti comici senza ingoffire le une o svilire gli altri: i – peraltro pochi – punti morti sono riscattati senza problemi da una regia silenziosa ed essenziale, che, anche grazie alla fotografia di Milan Spasic e alla bella ricostruzione d’epoca, evita (quasi del tutto) l’effetto – cartolina. Recitazione da manuale: Colm Meaney, in un ruolo potenzialmente solo odioso, ci fa piangere e sperare con il suo Harry, e, specie nell’aneddoto del cieco che riacquista l’uso degli occhi, è irresistibile.

Dopo "La polveriera" il regista serbo Goran Pascaljevic sembra voler fare un'opera sull'ineluttabile presenza del male nella natura umana. Male che non scaturisce da vendette a torti subiti, o da tentativi di conquista e imposizione della propria egemonia, ma che diventa semplicemente parte integrante del DNA dell'uomo. Ecco quindi il protagonista Harry (un bravissimo Colm Meaney in vacanza da "Star Trek"), padre-padrone nell'Irlanda del 1924, che decide di odiare la persona più ricca e influente della piccola comunità in cui vive. Questo perché, come spiega al figlio, "una persona si giudica dai nemici che ha". Ovviamente la situazione degenera in fretta, fino a un finale surreale e metaforico che vuole forse dare l'idea di un odio atavico con radici profonde, in grado di tramandarsi nel tempo. Ben diretto e interpretato, il film soffre della costante presenza di una teoria da dimostrare che prevarica motivazioni dei personaggi e soluzioni narrative. Spiazzante anche, nonostante l'universalità degli intenti, l'ambientazione irlandese. Probabilmente se il regista fosse riuscito a girare il film in Serbia (non ha potuto a causa di problemi politici) il messaggio sarebbe arrivato in modo più diretto.
