Drammatico

COME DIO COMANDA

NazioneItalia
Anno Produzione2008
Durata103'
Tratto dadall'omonimo romanzo di Niccolò Ammaniti
Scenografia
Musiche

TRAMA

Rino Zena, uomo violento che abusa di alcool, vive con il figlio Cristiano in una provincia del nord Italia. Rino è un lavoratore precario, spesso disoccupato, e rischia che gli venga tolto l’affidamento del figlio. I due hanno un legame molto forte e un unico amico, lo sciroccato Quattro Formaggi. Una notte di tempesta determinerà  in modo irreparabile il corso degli eventi.

RECENSIONI

Dopo Io non ho paura continua il sodalizio artistico tra Gabriele Salvatores e Niccolò Ammaniti con un'opera per ambientazione, colori e caratteri complementare alla precedente. Dal sole accecante della Puglia al grigio del Friuli Venezia Giulia per un racconto (l'omonimo romanzo premio Strega) in cui è ancora una volta centrale il confronto tra un padre e un figlio. Un alcolista spiantato, violento e xenofobo che ama il figlio di un amore totalizzante. Un adolescente che trova nella disequilibrata figura paterna l'unico punto di riferimento, il solo modello a cui aggrapparsi per fronteggiare le contraddizioni del mondo. Il contorno non è dei più rassicuranti. La collettività è rinchiusa in eleganti, quanto anonime, villette a schiera e traveste di benessere la propria desolazione. La società assiste impotente e incapace di estirpare le radici di un disagio profondo (la scuola si limita a valutare il profitto senza preoccuparsi di chi si annida dietro a un numero; l'assistenza sociale fa del suo meglio ma più che prevenire si rassegna, quando può, a curare). La materia è esplosiva e probabilmente nelle pagine del libro ci sono il tempo e lo spazio per crescere emotivamente insieme ai personaggi, per rendere vivo e pulsante il loro sentire, la loro disperazione. Sullo schermo questo non accade. Salvatores sceglie l'urlo costante. Nulla è allusivo o intuibile. Tutto viene spiegato, più che altro gridato. Le sequenze lasciano trasparire il peso di un fastidioso fine didattico teso a condizionare un punto di vista. Non c'è giudizio nei confronti dei personaggi, ma una comprensione costruita a tavolino. Il problema è che le sfumature non vengono valorizzate e il nero e l'estremo, dietro all'effetto, non raggiungono il cuore dei personaggi. La sceneggiatura inanella senza tregua momenti forti e scene madri ma non li prepara a dovere e nella parte finale la concomitanza di eventi risolutivi raggiunge vette imbarazzanti. Lo scopo, neanche tanto dissimulato, sembra solo quello di far quadrare il cerchio. La regia ambisce all'essenzialità dell'archetipo, ma della favola e della tragedia si percepisce solo l'apparenza: una ragazzina di rosso vestita che si avventura da sola nel bosco e un paesaggio brullo e privo di connotati riconoscibili in cui si stagliano a più riprese i protagonisti tuonando il loro dolore. Il fatto è che il pathos non arriva, il furore non lascia traccia e il mito soggiace alla forzatura. Fuori fuoco anche il rifugio nella musica come via di fuga dalla cupezza del presente. L'innesto della ripetuta "She’s the One" di Robbie Williams cita maldestramente Il tempo delle mele, avviene sempre in assenza di spontaneità e pare portare la didascalia di una facile, quanto remota, commozione. Non è di aiuto nemmeno il cast, vittima dello stesso problema della messa in scena: le facce sono quelle giuste, ma toni e gesti sbandano verso un eccesso che confina conflitti e dolori in un teatro costantemente sopra le righe. La diretta conseguenza è un black-out nella comunicazione.

C’è un paradosso capitale nell’ultimo lavoro di Salvatores, un’etica proposta alla comprensione, che desidera smantellare gradualmente i limiti di un’etichetta, dialogare tra verità e apparenza. Lontani dall’accusare il regista di essere incoerente, riconoscibile per l’ennesimo estetismo edulcorato e lezioso, di un pictorialism simil-pulp ormai fin troppo emulato, ci immergiamo nella sua riflessione che, prima ruota intorno alla superficie, e poi cerca spazio nella profondità delle “cose”.
Come Dio comanda sa un po’ di ammenda per una società idolatra, che vive se stessa attraverso il valore di stereotipi, falsi idoli e pregiudizi, ma in fondo si redime nel superarli. Per dirla in breve, la verità non è come appare, o meglio, non è solo come appare: Rino è sì un nazifascista violento e intollerante, ma a suo modo, anche un padre premuroso e vittima emarginata di un sistema economico che non lo tutela. Viceversa, di segno opposto, c’è Quattro Formaggi, il cui fiabesco e folle infantilismo, nasconde in realtà una natura più oscura e premeditata. Il contrasto si gioca tra queste due figure estreme, in apparenza catalogabili nel luogo comune del buono (Quattro formaggi) e cattivo (Rino). Al giovane Cristiano invece tocca andare oltre la crosta e vivificare il sentimento, prima senza il discernimento necessario nel comprendere la realtà circostante, poi grazie all’epifanica mano di Dio che, con qualche affanno, sigla il trionfo della giustizia.
Salvatores iconoclasta? A quanto pare sì, supportato e ostentato da un catalogo di macchiette interpretative. La messa a fuoco principale è sull’oggetto, sull’icona che spodesta il vero Dio (il sentimento, il valore profondo o come lo volete chiamare) e prende una sua devianza: feticismo (la fissa video-pornografica e il presepe poutpourri di Quattro Formaggi), consumismo (il contrasto musicale extradiegetico/ intradiegetico [1]), voyeurismo (la metafora fiabesca Lupo Cattivo/Cappuccetto Rosso, in cui il primo pedina ossessivamente la seconda e, come vuole la tradizione, la assalta nel bosco), etc.
Tutte queste riflessioni sono però legittimate nella loro apparenza, nella loro smerigliatura, grazie ad un’estetica che predilige un disincantato virtuosismo “pop”olare [2], senza mettersi in discussione e attivare con lucidità un’operazione di disvelamento. L’occhio di Salvatores non supera il problema posto, ma per la sua stessa natura (quella dei “demoni” da estirpare) non fa altro che rafforzarlo. Nell’assistere alla frantumazione del presepe, con quel pasticcio kitsch che viene drasticamente schiacciato/negato, se ne diparte il cuore (artificiale) del cinema in questione, nella sua essenza tanto lontana da Dio, quanto più crede di essergli vicino.
Non basta un primo piano in lacrime di Rino che osserva con amore il figlio, per verificare un’ambigua idea visiva; nemmeno se si cerca la truffa con la ruffiana Knockin’ on heaven door (frutto di una sintesi? [3]).

[1] Al pervasivo Main Theme ,che richiama per intensità e ruolo enfatico la soluzione di Io non ho paura, si contrappone She’s the one di Robbie Williams, un vero e proprio jingle che, dalla sua natura intradiegetica (l’Ipod di Fabiana) tenta di dominare l’extra (durante i vari ascolti , la soluzione si estende in una proiezione acustica del personaggio). Il falso Dio “pop”, che porta a numerosi fraintendimenti e a contrasti di senso, omologa così il sentimento dell’amore in un banale ritornello musicale. 

[2] Mi sono limitato a ragionare su un approccio visivo empatico/teorico solo in senso generale, nel suo respiro d’insieme. I difetti insiti nel film, di natura macroscopica, investono numerosi elementi, su cui però preferisco non soffermarmi (tanto per citarne uno, basta evidenziare la prova attoriale, caricaturale, ipertrofica e stopposa a non finire). 

[3] Rivalutando la nota num 1, l’impatto iniziale crea una forte perplessità. L’unica via di fuga è pensare più o meno così: Knockin’ on Heaven door (potenziale alterego di She’s the one), che occupa lo spazio extradiegetico, combacia con la natura “profonda” del rapporto padre-figlio (il vero Dio ritrovato), in una sorta di compresenza tra i due “opposti”. Di punto a capo: forse l’icona di consumo non è da abiurare nella sua essenza, ma nella sua contestualizzazione?