TRAMA
1989, Texas: un corniciaio uccide un ladro. Il padre di quest’ultimo minaccia la vita di suo figlio: la polizia lo arresta e cerca di toglierlo di mezzo in modo illegale. Il corniciaio lo salva.
RECENSIONI
Walker Texas Pigboy
Coppia artistica di lunga data, Jim Mickle e Nick Damici (attore/sceneggiatore) mettono mano al racconto “Freddo a Luglio” (1989) del romanziere “cross-genre” Joe R. Lonsdale, commettendo lo stesso errore del precedente Stake Land, prendendosi sul serio quando non dovrebbero e viceversa. La partenza ha sapori “veri e ruvidi” come il tipo di Sam Shepard, mentre Michael C. Hall indossa il trauma dell’aver tolto la vita ad un uomo per legittima difesa (in Texas: beffa della pagina scritta, non del film). Poi, in un racconto che cambia in continuazione direzione come lo scrittore ama, parte il thriller sensazionalistico di disturbo domestico (a seguire quello con complotto istituzionale), che richiama anche filmicamente il periodo a cavallo fra anni ottanta e novanta, già citato dalle note elettroniche stile John Carpenter. Scavare psicologie e temi non è obbligatorio, ma farvi accenno in modo schizofrenico ed inconcludente è deleterio: si perde, oltretutto, l’ironia di Lonsdale che lavora sul senso da dare ad accenti caratteriali ed esagerazioni drammaturgiche; si perdono i “collegamenti” (la veste iniziale da pamphlet contro la violenza e il paradosso di un finale sparatutto), il senso della caricatura (la moglie preoccupata più del divano che della coscienza del corniciaio) e delle alterazioni (nel dimenticatoio finisce anche la volontà del corniciaio di scoprire chi ha ucciso veramente). Quando entra in campo il pig-boy donnaiolo e smargiasso di Don Johnson, l’inversione a U verso la commedia violenta è sancita, mentre l’introduzione con indignazione dello snuff-movie e del ralenti dei tre pistoleri, pronti per lo scontro finale, dona la certezza di abitare un episodio sopra le righe di “Walker Texas Ranger” (o Il Duro del Road House, secondo Mickle). Poco male, non fosse che i brividi estivi non li dona un racconto generoso/imprevedibile che rinnega con lo straniamento ogni registro percorso (Lonsdale) ma l’incapacità di Mickle e Damici di trovare l’equilibrio fra grottesco, violenza e lirismo (quello che era riuscito a Don Coscarelli in Bubba Ho-Tep), anziché vivere lo scrittore a compartimenti stagni che, abbandonati a se stessi, sono basici e grossolani (complice una messinscena approssimativa).