Drammatico, Sala

CLIMAX

Titolo OriginaleClimax
NazioneFrancia, Belgio, U.S.A.
Anno Produzione2018
Durata90'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

A metà degli anni Novanta, venti giovani danzatori si riuniscono per una prova di tre giorni in un collegio in disuso. Presto l’atmosfera diventa elettrica e una strana follia li travolge. Si renderanno conto di essere stati drogati ma non sanno da chi o perché. La situazione segue un continuo crescendo e mentre alcuni si sentono in paradiso, molti di loro vivono l’inferno.

RECENSIONI

It's good to be alive
To be alive
To be alive
It's good to be alive
To be alive
To be alive

Gaspar Noé sceglie il 1996 perché, dice, è l’ultimo anno senza internet e i cellulari, e con una musica che è tuttavia sopravvissuta (nel 1996 i Daft Punk realizzarono il loro primo disco). Con Climax il suo cinema torna francofono («un film francese e fiero di esserlo»): le immagini e i proclami ad alta voce del regista (le roboanti scritte a tutto schermo) mirano a inscenare anche un luogo, una visione politica, una comunità multietnica in continua effervescenza. La Francia, insomma.
Così Climax costruisce dapprima un’immagine di armonia e gioiosa condivisione del movimento coreutico (il progetto nasce anche dalla volontà del regista di coinvolgere i migliori danzatori su piazza), per poi pian piano distruggerla e riconvertirla nel caos, nell’infernale contrapposizione dei caratteri, nel loro confliggere violento. Ma nel creare un flusso coreografico prima (il controllo della circostanza) e anticoreografico poi (la perdita assoluta di quel controllo), l’intento primario di Noé è pervenire a una rappresentazione di forte impatto visivo.
Film disciplinato e anarchico dunque, ché il regista da un lato rinuncia a uno script e a dialoghi preparati, dall’altro dà indicazioni di massima agli attori sulla storyline; premesse finzionali, ma sviluppo libero e affidato a un occhio della macchina da presa che si fa documentaristico. Ma dentro una struttura forte (prologo, titoli di coda, scena corale, sipari a due e tre, titoli di testa, caos, climax, epilogo). Per questo motivo non sorprende che le scene siano state girate in ordine cronologico: esattamente come il ballo, il film si muove secondo una scala di potenza modulata.

Cineteatrodanza, esperienza artistica studiatamente provocatoria fatta di lunghi piani sequenza (la direzione della fotografia è del fedelissimo Benoît Debie), Climax riporta Noé su un terreno prediletto: quello di una espressività libera quanto più possibile dalle maglie della narrazione e consegnata alla voluttà della visione, in cui ciò che conta è l’intensità e la temperatura delle situazioni, più che le situazioni stesse.  Si prenda la sequenza in plongée, che costituisce lo spartiacque e prelude al sabba lisergico: è lunghissima (10 minuti, compresi i titoli di testa), è dominata dalla musica ossessiva, dal muoversi ritmico dei corpi e immerge lo spettatore dentro l’esperienza, liberandolo completamente dalla riflessione, in una sorta di mantra visivo che fa arretrare il cinema a un livello archetipale.
In questo senso il delirio psicotropo è anche lo strumento e il pretesto (direi quasi il mcguffin) che il regista utilizza per avere in scena corpi esagitati che mimino la possession-e (Zulawski c’entra dichiaratamente), in movimento continuo, scalmanato, fuori dagli schemi, in un’orgia visionaria stordente, che bombardi il pubblico e lo esasperi deliberatamente.
E l’ultimo Lux Æterna, mediometraggio visto quest’anno a Cannes, definisce ulteriormente il discorso, conducendolo sul piano di una performance oramai decerebrata, in cui non viene trattenuto neanche un grammo di pensiero e tutto si converte in pura aggressione sensoriale: l’immagine sullo schermo assale lo spettatore, lo abbaglia, lo invade. Fine. Non segue dibattito.

Perché non c’è sottotesto nel cinema di Noé: what you see is what you get. E che vive nell’assoluta coscienza della presenza di uno spettatore a cui costantemente il regista guarda: a chi sono rivolti i titoli di coda e di testa di Climax, posti imprevedibilmente all’inizio e a metà del film, se non a un pubblico che deve essere sorpreso e disorientato da una tale collocazione? Così anche le videocassette e i libri che circondano lo schermo in cui gli attori-ballerini parlano all’inizio sono palese dichiarazione d’intenti fatta a chi guarda, oltre a messa a nudo delle radici e spudorata confessione dell’origine dell’ispirazione (lo Zulawski di cui sopra, per esempio). E stante l’armonia iniziale, i sipari a due e a tre, che spezzettano l’ordito, prima dell’esplosione del delirio, vogliono essere quello che sono: futili conversazioni che, pur tornando su alcune ossessioni dell’autore (maternità, paternità, nascita, aborto) diventano tracce elementari, semplici allusioni ed ellissi di una drammaturgia solo intuibile, sicuramente trascurabile. Come il finale chiaro-non chiaro, lasciato lì, a chi vuol coglierlo (ma sì, chiaro: Psyche, la colpevole, nella sua camera lascia cadere gocce di LSD nella pupilla, il che suggerirebbe, senza dirlo, che tutto è avvenuto lì, nel globo oculare; per l’appunto: un suo trip psyche-delico - Psyche era il titolo del film, in origine -). Mai come stavolta niente da cercare sotto la pelle dell’immagine: non è un caso che non ci sia un protagonista, ma soggetti che galleggiano nel brodo primordiale (come pezzi di frutta nella sangria?), tra eventi fluttuanti e disarticolati (come la vita?) in uno spazio chiuso (che è la Francia e il mondo?), in una danza prima coordinata poi insensata, non contenibile, che scivola via, come scivola la festa umana, trascinando tutto con sé.
Cinema come masturbazione dello schermo, cinema il cui scopo ultimo è l’orgasmo dell’occhio (di Psyche e nostro). Cinema
born to be alive.