TRAMA
RECENSIONI
In Giappone gli anni immediatamente posteriori al secondo conflitto mondiale sono segnati dalla presenza delle truppe americane del generale MacArthur il quale impone un democraticismo forzoso per contrastare e neutralizzare qualsiasi ipotesi di revanscismo socio-culturale d’impronta tradizionalista che potesse rivivificare le mai defunte istanze nazionaliste del popolo giapponese. Il cinema, naturalmente, come eminente espressione culturale deve adeguarsi alla linea politica occupazionista imposta, dunque, in primis, viene vietata la produzione di jidaigeki (film storici, o in costume) visti come pericoloso veicolo di diffusione di principi tradizionalisti. Si ritorna (specialmente la Shôchiku) allo shomingeki degli anni ’30, ovvero il dramma moderno ispirato dal nuovo teatro shinpa, introdotto agli inizi del XX secolo, sensibile alla condizione sociale dell’uomo (e, soprattutto, della donna) della contemporaneità. Per l’interesse cinematografico rivestito da Mizoguchi nei confronti dell’universo femminile il diktat estetico preteso dall’invasore straniero non costituisce nessuno sconvolgimento all’interno della sua peculiare poetica, tantoché girerà una sorta di trilogia incentrata sull’emancipazione femminile costituita da Josei no shôri (La vittoria delle donne), Joyû Sumako no koi (L’amore dell’attrice Sumako) e Waga koi wa moenu (Il mio amore brucia), nulla dunque di più contestualmente “democratico” nell’ambito di un retaggio socio-culturale marcatamente e millenariamente androcratico. Tuttavia Mizoguchi riesce sempre per conto della Shôchiku (che abbandonerà nel ’51 per approdare alla Tôhô prima e alla Daiei poi) a realizzare un progetto di jidaigeki a lui particolarmente caro, incentrato comunque su una concezione del tutto inedita della figura femminile: Utamaro o meguru gonin no onna (Cinque donne intorno a Utamaro). Utamaro (1753 – 1806), celebre pittore che operò nell’ambito dello ukyio-e (immagini dell’effimero) specializzatosi nel genere bijin-ga (immagini di bellezza femminile) nel quale raggiunse la sua più elevata espressione artistica, si rende attento osservatore delle vicende umane che lo coinvolgono più per condivisione spaziale (le azioni interessano uno scenario di cose e persone condiviso dall’artista) che per attinenza diretta e personale. La distanza stabilita tra sé e il mondo (significatico l’espediente della suddivisione dei piani all’interno delle abitazioni, favorito dai shôji) diviene inesauribile fonte di conoscenza mediata dall’istituto dell’arte. L’oggetto non può essere teoreticamente raggiunto se non mediante un percorso voyeuristicamente indiretto, di negazione e riappropriazione mediante la visione e, conseguentemente, l’opera d’arte. Il dipinto come oggetto artistico è l’unico elemento attraverso il quale l’artista può giungere rifigurandola alla comprensione della tragedia della condizione umana evidenziata dallo spirito di donne infelici nella messa in rappresentazione nell’ambito del teatro dei sentimenti sublimando l’ossessione della libido del possesso oggettuale nell’opera d’arte medesima, il dramma del quale non è dato dall’insanabile scissione arte-vita, ma da qualsiasi ostacolo si frapponga tra l’un termine e l’altro, come un quid che impedisca di vedere, di immaginare e (dunque) di dipingere.
