TRAMA
Ginecologa assume prostituta per confermare la presunta propensione del marito al tradimento, facendosi poi raccontare i dettagli degli incontri…
RECENSIONI
EGOYAN
La filmografia di Atom Egoyan è la storia di un'ossessione, l'esplorazione minuziosa delle possibilità dell'immagine e la riflessione mai doma sulle responsabilità di ogni rappresentazione, la domanda insistente sulle tracce distorte a cui si ancora la percezione, l'indice contro i segni viziati che deformano la memoria. Egoyan è un cineasta consapevole della centralità del proprio ruolo, quello di creatore di immagini: calibra il peso di ogni frame, fa di ogni film il riflesso di un pensiero sul cinema che, aggiornando Truffaut alla società del simulacro, è indissolubile dalla visione del mondo. L'ostinazione della sua coscienza critica è tacciata di manierismo, automatismo critico frettolosamente valutativo che pone accenti sulla reiterazione rigorosa e personale dei modi e non preserva, nel fisiologico alternarsi degli alti e dei bassi di una carriera, la preziosa rarità di un discorso antico ma necessario, che ha a che fare con quella cosa che altri tempi e altri scritti definivano morale della visione. Il suo è un discorso che non teme di applicarsi alla memoria di un genocidio come all'autorappresentazione sentimentale, ai pruriti scandalistici dietro il tubo catodico come alla ragnatela di false apparenze tessuta da un killer seriale in cerca di vittime. E' un discorso che ha il coraggio del massimalismo, delle questioni della Storia, del Linguaggio e della Religione (come conferma, splendidamente, Adoration) come del vestito di genere (il noir, soprattutto, il melò, glaciale, sottotraccia). Un discorso che racchiude nella struttura a intarsi temporali, nella programmatica confusione tra verità e menzogna, nella difficoltà di comprendere l'istanza enunciativa delle immagini che scorrono sullo schermo, il suo senso profondo: le carte sono mischiate per indurre lo spettatore a farsi della domande sulla provenienza, la posizione e la veridicità di ogni singola sequenza, in un percorso che si fa detection, l'etica saldata indissolubilmente all'estetica, la presunta verginità delle copie del mondo messa a tacere: non è un caso che Egoyan, frequentemente, leghi la possibilità della memoria (elemento necessario a colmare un'assenza che è l'elemento centrale e scatenante di ogni suo film) al potere evocativo e intimo di oggetti/feticcio, non alla presunzione del filtro della rappresentazione.
NON EGOYAN
Chloe è insieme smentita e ulteriore affermazione. Egoyan, che i suoi film solitamente li scrive, li produce e li dirige, è qui, per la prima volta, unicamente regista, metteur en scene su commissione di uno script di Erin Cressidra Wilson (Secretary, Fur), firma d'estrazione media-intellighenzia para-hollywoodiana; a disposizione, anziché la fedele crew, un cast di stelle conclamate (Julianne Moore e Liam Neeson) o in ascesa (Amanda Seyfried). Libera elaborazione dello spunto iniziale di Nathalie (Anne Fontaine, 2003), il canovaccio - che prevede il triangolo lui/lei/l'altra condito da umori lesbo, ambientazione familiare e alto-borghese, patina incrinata da frustrati desideri melò sfocianti in tinte noir - è pane per i denti dell'autore, vedi alla voce: false verità. Ma dove nelle opere precedenti il pubblico era portato ad indagare sulla reale consistenza delle immagini, sino alla ricomposizione finale di un puzzle finalmente leggibile, in Chloe Egoyan gioca contro il testo, il genere e la propria poetica, esplicitando sin dall'incipit (le parole di Chloe sono un manifesto d'intenti) il colpo di scena che verrà, annientando la possibilità, per lo spettatore ricettivo, dello svelamento, annichilendo esattamente quel principio su cui l' intera filmografia del canadese si fonda, inscrivendo la pellicola nel territorio della prevedibilità. Quel che rimane, ad un primo livello, è l'indagine raggelata di un tormento intimo, di un rovello esistenziale, la morbosità assillante di un innamoramento che diviene facile cibo per la bocca del thrilling, qualche personale topos fatto posticcio, lo sviluppo narrativo abbarbicato all'interpretazione sofferta della Moore, mentre lo sguardo di Egoyan, privato dell'abituale paradigma, risulta di raffinata freddezza illustrativa, capace certamente di parlare tramite spazi, corpi e tempo, di attentare ai confini della moralità estetica del target di riferimento, ma anche di sposare marchiane soluzioni visive, come inconsapevolmente memori di Zalman King. Un dettaglio. E cambia tutto. Basta un dettaglio a investire di nuovo senso la visione, ad ammantarla di ambiguità: il volto di Julianne Moore verso marito e figlio e poi la sua nuca, i capelli ammaestrati in una crocchia (di hitchcockiana memoria, ça va sans dire) da un fermaglio. Ancora una volta un film di Egoyan si chiude su un feticcio: ma se sino ad ora l'oggetto sanciva la meta finale di un percorso, il punto di chiusura di un avvenuto processo di svelamento (ontologico, strutturale e sentimentale), in Chloe apre strade perdute, insinua piste che dissestano la linearità del film, lo sospendono in un limbo indeciso tra proiezione onirica e realtà (lo conferma il fluttuare della mdp, sui titoli di coda, nell'esplorazione dell'unico ambiente definito dalla diegesi come mentale), immergendo nella polisemia particolari ritenuti secondari, ricontestualizzando piccole increspature, negando l'interpretazione univoca, sottraendo il film alla chiusura del senso, destabilizzando, senza alterare pienamente, la lettura piana. Nel suo (?) primo film a dominante carattere industriale, Egoyan ribalta i modi del fare cinema che gli è proprio: non dipana il groviglio di rappresentazioni che abbraccia il mondo, ma, mentre attutisce l'ansia narrativa di riconoscere il vero dal falso in un intreccio prevedibile, dimostra la strutturale equivocità di ogni immagine, non bada al chiarimento, ma fa di un semplice dettaglio l'interruttore della menzogna, la firma beffarda dell'ennesima possibile affabulazione nella forma di una rieducazione sentimentale.

Un’opera su commissione per Egoyan, per quanto consona alla sua poetica (la “mediazione”, stavolta, è rappresentata dai racconti della prostituta), che rifà il Nathalie... di Anne Fontaine basandosi su di una sceneggiatura di Erin Cressida Wilson (Secretary): il prologo mette già sul piatto, pur con l’eleganza e la cura del dettaglio cui ci ha abituati l’autore, i banali temi del racconto, fra spegnimento del desiderio in una coppia di lungo corso e dinamiche del tradimento. Quando entra in campo Chloe, Egoyan mette a frutto le proprie doti nel filmare l’erotismo (dagli sguardi sulla sua sensualità alla scena saffica con Julianne Moore) e, soprattutto, il suo cinema fondato su personaggi simbolici ed ambigui: Chloe si trasforma in una sorta di mito, di proiezione che assume in sé il desiderio degli uomini. È ottimo il modo in cui il regista restituisce una protagonista che non è più a contatto con l’Eros: il marito flirta con studentesse e cameriere senza che lei se ne accorga, il figlio con fidanzata non si confida più con lei e, più direttamente, la stessa ginecologa spiega ad una paziente che nell’orgasmo non c’è nulla di magico, è solo una contrazione muscolare. Egoyan ne coglie benissimo anche gli sguardi intenti a carpire i “segreti” di un corpo giovane e desiderabile che lei non possiede più: ma la sua opera promette un discorso articolato sul perché del tradimento che viene del tutto disatteso. Nella fondamentale scena con “scarto” fra ciò che sappiamo e ciò che si nasconde (quando Chloe, nello studio della ginecologa, decide di tampinare il figlio di Catherine, smettendo di essere una professionista a pagamento), ci si aspetta che Egoyan opti per il mistero, l’ambiguità del personaggio, fecondando allegorie intriganti sui rapporti d’amore umani. Invece, purtroppo, fra colpi di scena e svolgimento abbastanza prevedibile, imbastisce solo un thriller ad effetto, con la solita “follia” d’amore atta a rovinare la famiglia borghese.
