TRAMA
Ascoltando una vecchia radio che le ha lasciato il padre, la giovane Asuna sente una canzone misteriosa che le si insinua nella mente e non la abbandona più. Lungo la strada che porta al suo nascondiglio tra le colline, viene attaccata da una creatura mostruosa. La salva un giovane, tal Shun, apparso dal nulla. Il ragazzo proviene da Agartha, una terra sotterranea protetta da guardiani feroci per impedire l’accesso dei comuni mortali. Shun spiega ad Asuna di essere giunto alla ricerca di qualcuno che deve assolutamente incontrare, ma così come era apparso all’improvviso scompare.
RECENSIONI
Dopo l’intenso 5 Centimeters per Second, già vincitore del Platinum Grand Prize al Future Film Festival del 2008, Makoto Shinkai continua a portare avanti la sua idea di cinema come luogo di incontro di differenti sensibilità, in cui il bello si insinua tra le pieghe della tradizione per poi avanzare verso l’inesplorato. L’obiettivo è la conquista di una consapevolezza salvifica, la strada da intraprendere non è indolore e il disegno apre le porte all’ignoto permeandolo di suggestione. La ricerca porta Shinkai, attraverso la sua protagonista Asuna, sul baratro di Agartha, leggendario mondo sotterraneo in cui millenni or sono trovò rifugio parte dell’umanità insieme ai Quetzal Coatl, gli antichi dei che la proteggevano. Un mondo oggi morente, dove però è possibile far tornare in vita i morti.
Ed è ancora una volta la separazione o, meglio, la sua accettazione, il tema cardine della poetica cinematografica di Shinkai, che fa compiere alla sua eroina un lungo percorso iniziatico proprio per farle capire come la morte faccia parte della vita e debba essere non fuggita ma compresa. Come già il precedente fulgido lungometraggio, anche Children Who Chase Lost Voices non gode di una narrazione tradizionale, e pur tentando (non sempre riuscendoci) di tenere i fili del racconto, Shinkai procede per tappe emotive, più attento forse al suo sentire che a quello dei personaggi. Poco importa, visto il risultato, sempre teso al bello e allo scioglimento dell’irrazionalità.
Siamo dalle parte del maestro Hayao Miyazaki, a cui il regista giapponese è stato più volte accostato, ma con minore leggerezza e con un’impronta personale, non solo tematica ma anche cromatica, a questo punto definitivamente stile. Ormai riconoscibili, infatti, i bellissimi fondali fotorealistici, che non si limitano a definire il perimetro del narrato ma ne determinano l’essenza e forse il vero significato; più anonimo il character design, molto meno sofisticato, dei personaggi. Tante le sequenze indimenticabili. Tra tutte quella del mostro morente che mangia i protagonisti per aiutarli a progredire nel loro cammino. L’andamento quasi onirico, dove i pericoli si fondono con le opportunità, permette al film di captare percezioni, evocare stati d’animo e intercettare sensibilità spesso in contrasto. Un viaggio non sempre facile in grado, però, di portare lontano.
