TRAMA
Lester Ballard, rifiuto della società, vive privo di contatti con il resto del mondo in una baracca nei boschi. Dopo aver scoperto la passione per il corpo di una ragazza morta, si trasforma in serial killer e nasconde le sue prede nelle caverne.
RECENSIONI
Eclettico e ubiquo fino allo sfinimento (suo e dello spettatore), James Franco ha messo in fila una dozzina di regie di lungometraggi in meno di 10 anni, affilando nel tempo una predilezione spiccata per la grande letteratura americana trasposta su grande schermo: da The Broken Tower, incentrato sul poeta Hart Crane, all’imminente biopic Bukowski, passando per As I Lay Dying tratto da Mentre morivo di William Faulkner (del quale sta attualmente adattando anche L’urlo e il furore). Con Child of God, tratto da Figlio di dio, l’opera terza di Cormac McCarthy, Franco compie un passo decisivo, quello di spostarsi da davanti l’obiettivo restando soltanto dietro la macchina da presa (quasi: non resiste a un cameo d’autore abbastanza pretestuoso). Lasciando in azione, in solitaria per buona parte del film, la performance straordinaria del sodale Scott Haze: nei panni lerci del reietto Lester Ballard, esiliatosi nei boschi fino a regredire a uno stato semiprimordiale, l’attore dà una prova in tutti i sensi mostruosa, fatta di carne e grugniti, di adesione metodica alla ripugnanza di un personaggio ferino e fatto di puro istinto. Preparatosi al ruolo vivendo per settimane in un capanno isolato in Tennessee e vagando per le caverne dove Ballard trova rifugio, Haze tiene sulle spalle l’intero film, sprofondando membra e linguaggio nell’abisso folle di un uomo che vive al confine tra bestialità feroce e candore fanciullesco. C’è, nella performance di Haze, una componente di insondabile tenerezza, che perfino durante le sequenze più scabrose, quelle in cui abusa sessualmente di una giovane donna morta assiderata nella sua automobile, è in grado di introdurre un elemento di purezza straniante. Lo stesso si può dire per le scene in cui Ballard dialoga con i suoi unici amici, un trio di peluche sovradimensionati vinti alla fiera, che salva da un incendio e poi sopprime in una sequenza di struggente legame uomo-oggetto inanimato come non se ne vedevano dall’amicizia viscerale fra Tom Hanks e il pallone Wilson in Cast Away. James Franco, alle prese con una riduzione tecnicamente meno ardua di quella di Faulkner, dimostra di essere ancora autore acerbo, aggrappato senza troppo sforzo alle spalle solide del testo di partenza e a quelle del suo attore protagonista. Qualche intuizione c’è: la scelta di far affievolire la voce narrante della prima parte del film fino ad abolirla, come a seguire lo sprofondamento di Ballard nell’asocialità e nella mancanza di comunicazione verbale; la bella colonna sonora firmata da Aaron Embry che infonde una dissonante vitalità country alla storia di necrofilia; ma il lavoro di Franco regista è ancora privo di una personalità forte. Anche la scelta di tagliare, nell’ambito di un adattamento per il resto piuttosto fedele, la sezione conclusiva del romanzo, quella in cui Ballard veniva rinchiuso in un istituto, sembra essere dettata più che altro dalla volontà di circoscrivere la messa in scena a quei paesaggi di fango e roccia dei quali il corpo mutato di Scott Haze pare una diretta emanazione. Di un film paradossalmente cauto e composto nel ritrarre un personaggio colpevole di nefandezze e brutalità, resta il talento cristallino di un attore di cui Franco si pone, prima che come regista, come complice e amico, quasi in posizione subordinata.
