TRAMA
Nella Chicago degli anni venti, una cantante di night (Velma) e un’ingenua sognatrice (Roxie) uccidono i rispettivi amanti e vengono rinchiuse nella prigione della città. A dar loro una mano, dietro lauto compenso, penserà un avvocato/showman.
RECENSIONI
La Società dello Spettacolo
Bob Fosse, autore teatrale e ottimo regista cinematografico, mise in scena questo delizioso musical nel 1975. Non riuscì a fare ciò che fece anni prima con altri musical: trasferirlo sul grande schermo. Con lo splendido “Cabaret” e con “All that jazz” (il suo narcisistico e commovente “Otto e mezzo”) Fosse rivoluzionò un genere in piena fase calante regalandoci quelli che, ancora oggi, sono gli ultimi grandi musical della storia del cinema, i primi ad entrare a pieno diritto, molto prima di “Moulin rouge”, nella categoria onnicomprensiva e dai contorni ancora mal definiti di “musical post-moderno”. Quei testi filmici dal personalissimo stile (primi piani, montaggi paralleli nei momenti musicali, atmosfere cupe, sguardi perversi, assenza di campi totali nei numeri) e tematicamente incentrati su tutto ciò che fa spettacolo nella cinica “società dello spettacolo” sono stati studiati scrupolosamente sia dal regista del film (Rob Marshall, lo stesso della versione teatrale, qui al suo esordio), sia dallo sceneggiatore Bill Condon (che qualche anno fa aveva scritto e diretto “Demoni e Dei” vincendo un Oscar per la sceneggiatura). La pièce originale, una sorta di "Prima pagina" ante litteram, una satira sulla manipolazione giornalistica e sui mostri dati in pasto ad una folla indistinta in cerca di modelli da imitare (sempre attuale), fu già portata sullo schermo nel '27 e nel '42 da William Wellman. Nonostante la patina “miramaxiana” altrove insopportabile e la scelta di attori di chiara fama che hanno rimpiazzato i cantanti e ballerini provetti dell’edizione teatrale, questa trasposizione cinematografica è accattivante, seducente, tecnicamente ineccepibile. René Zellweger, Catherine Zeta-Jones e Richard Gere sanno di non poter gareggiare con i miti del passato e dunque giocano con loro, si dimenano ed intonano canzoni che rimandano direttamente alle danze sinuose e provocanti di una Liza Minnelli (modello per la signora Douglas che con caschetto alla Louise Brooks si fa perdonare, almeno in parte, le pessime interpretazioni del passato), agli eleganti tip tap di un Fred Astaire (modello per l’avvocato Gere), agli ancheggiamenti tentatori di una Marylin circondata da procaci maschietti o a certe smorfie di Ginger Rogers (modello per la Zellweger). Il montaggio segue il ritmo sincopato del jazz e fa convivere "realtà" e trasfigurazione/deformazione musicale. I momenti coreografici e musicali, ripresi spesso con inquadrature oblique e lenti deformanti, non solo replicano i contenuti dei "recitativi" ma accrescono lo spessore psicologico dei personaggi: ogni canzone è una sorta di confessione, di smascheramento, è il luogo in cui la verità emerge. Dalle protagoniste Roxie e Velma (che duetteranno, con mitragliatrice, nello scoppiettante finale) all'ambigua carceriera (un'ottima Queen Latifah in "When You're Good to Mama"); dall'avvocato da operetta che persuade la giuria con un'arte retorica che è un "tip tap della lingua" (Gere, autoironico ergo digeribile) al triste e stupido maritino Amos (non a caso John Reilly canta "Mr. Cellophane"): tutti hanno il loro fugace momento di gloria in una società, quella dello spettacolo, in cui le stelle nascono e muoiono nel giro di ventiquattro ore, in cui tutti operano applicando la tattica del "fumo negli occhi", in cui l'omicidio è una forma di intrattenimento. Il giornalismo segue morbosamente le tracce di sangue lasciate sul selciato che conduce alla notorietà da "Eve" disposte a tutto, "gold diggers" crudeli plasmate da uomini ancora più cinici. Un film sfavillante ma al tempo stesso algido ed imperfetto come il mondo che rappresenta, freddo esercizio di stile in netta antitesi con il caldo sentimentalismo di "Moulin rouge".
Rinascita di un genere mai morto
La stampa e il marketing hanno creato il caso "Moulin Rouge", definendolo come l'ultimo musical possibile. Un caleidoscopio di colori unito alla contaminazione di generi musicali diversi, e in apparenza inaccostabili, in grado di rompere con la tradizione del passato. Per molti, l'unico modo per adattarsi alle dita prensili delle giovani generazioni, abituate a tambureggiare sui tasti del telecomando per passare senza sosta da un programma televisivo all'altro e incapaci, a quanto si dice, di seguire con interesse sequenze prive di almeno uno stacco ogni cinque secondi. In realta' il musical e' patrimonio genetico del cinema americano e, se "Moulin Rouge" lo ha in qualche modo reinventato, non si deve andare poi troppo indietro nel tempo per trovarne uno di successo. Basta pensare a "Evita", di Alan Parker, che e' del 1996 e si puo' considerare un esempio riuscito di narrazione in musica apprezzato anche dal pubblico; segno quindi tangibile dell'intramontabilita', pur con alti e bassi, del genere. Con "Chicago" Rob Marshall, regista teatrale di successo, compie un'operazione che unisce sfarzo, talento e furbizia e riprende, per fortuna in stile tutt'altro che "dogma", l'idea alla base di "Dancer in the dark". La protagonista, infatti, come la Selma del film di Lars von Trier, vorrebbe vivere in un musical e tutte le performance proposte sono frutto della sua fantasia: una sgargiante interpretazione della realta' in contrapposizione allo squallore del presente. La grande abilita' del regista e' di orchestrare con certosina perizia i passaggi tra i vari livelli della narrazione. In questo senso il montaggio e' davvero strepitoso per fluidita' e complessita'. Nonostante le tante invenzioni visive, pero', il film pare arrivare ormai fuori tempo limite. Non tanto perche' musical, anzi, ben vengano personaggi che di colpo interrompono la linearita' del racconto per rifuggire nel canto, quanto per l'odore di naftalina che si respira. A partire dall'ambientazione, con i soliti anni del Proibizionismo rappresentati da locali fumosi ad alta gradazione alcolica e riempiti da personaggi incapaci di uscire dallo stereotipo (l'avvocato senza scrupoli, la Mamy, la gatta morta, la vamp, il marito cornuto); fino alla sceneggiatura, che segue il piu' classico degli schemi con l'immancabile processo dalla pubblica risonanza a sciogliere i fili della vicenda. Inoltre "Chicago" punta su una satira di costume vecchia come il cucco (l'inflazionato mix di sesso&potere, aggiornato ai tempi nella fame di successo delle due protagoniste) e su un cinismo piu' formale che sostanziale. Anche la musica, quasi completamente jazz e priva di un motivo trainante, si dimentica in fretta e lo show ripesca da vecchi armadi lustrini e paillettes senza troppa ironia. Gli interpreti si prestano con volonta' e disinvoltura alla non facile prova del canto e del ballo, anche se Renee Zellweger ripropone il suo campionario di smorfiette e moine sempre piu' insopportabili, mentre Catherine Zeta-Jones sfodera, oltre a un corpo da matrona del tip-tap, una grinta da leonessa. Richard Gere non sfigura, pur senza brillare, nel ruolo del cinico avvocato. Tra i vari numeri musicali, a lasciare il segno e' "Cell Block Tango", in cui le detenute in attesa di giudizio raccontano come sono finite in carcere e che sintetizza la grande padronanza del mezzo cinematografico da parte del regista. In un anno minacciato dai venti di guerra, dove il cinema sembra dover assolvere la funzione di distogliere il pubblico dagli accadimenti reali, "Chicago" potrebbe essere il candidato ideale per fare incetta di statuette. Come dire, se non puoi convincerli, confondili!
Aquile ad ali spiegate
Benvenuti nel XX secolo degli imbonitori e dei ciarlatani, dove la mediocrità, se adeguatamente amplificata dai media, rifulge nel firmamento delle stelle cadenti, mitizzate da un pubblico sensibile al rumore più assordante e di moda. Le "Brave little women" (titolo della pièce del 1926 da cui il musical è tratto) sfoggiano giarrettiere e aquile (spaccate) ad ali spiegate, sanciscono nella sensualità la deificazione dell’effimero, mentre l’abile comunicatore (manager, avvocato o politico che sia) sparge il fumo negli occhi, crea il personaggio come un ventriloquo, manovra la stampa come un burattinaio. Grazie all’esordiente Rob Marshall rivive in tutto il suo splendore (colore) e spessore il musical secondo Bob Fosse (sua la versione per Broadway, 1975), fra l’espressionismo di Cabaret e l’onirismo di All That Jazz. La prima esibizione di Velma Kelly è introdotta a pezzi, in un turbinio di dettagli. In montaggio parallelo, Roxie Hart fa sesso selvaggio, massacra l’amante, esalta e insulta il marito in Funny Honey (ingegnoso il cambio di tono in tempo reale). Gocce e passi danno il La al magnifico Cell Block Tango nella "Jailhouse Rock": sei assassine sexy e furenti riproducono l’omicidio nei nastri rossi ma non confessano il crimine. Fra gli Spiccioli dal Cielo, entra in scena la sceneggiata dell’avvocato per inebetire con le puttane beatificate le giurie del mondo. Il crimine è una forma di intrattenimento perpetrato nello scandalo, il Grande Circo sospende la Dea Bendata della Giustizia (Razzle Dazzle) e balla il tip-tap (geniale allegoria) per rimescolare le carte senza che nessuno se ne accorga. Roxie Hart (personaggio realmente esistito) si specchia nella vanità e immagina il patibolo (riservato alle innocenti) come un qualsiasi spettacolo di sparizione, dove uccide solo l’inabilità ad esprimersi (vendersi). Piange la propria sorte e non quella dei tanti Signori Cellophane che, per rettitudine (stoltezza), sono trasparenti e invisibili. I tamburi rullano, il collo si spezza, il pubblico applaude le pupe jazz con il mitra in mano e riflette sulle loro parole: "Grazie, senza di voi non ce l’avremmo mai fatta".