TRAMA
RECENSIONI
La monumentale parete rocciosa che, nella prima inquadratura di Chevalier, chiude la spiaggia raggiunta a nuoto dai protagonisti, sembra incarnare una folgorante immagine che Kafka, riflettendo su Prometeo, ha dedicato al mito: «ci si stancò di ciò che ormai aveva perduto il suo senso. Si stancarono gli dei, si stancarono le aquile, la ferita – stanca – si richiuse. Restò l’inesplicabile montagna di roccia». Abbassato l’orizzonte fisico ed epico al livello di un parapetto tirato a lucido, resta nel cinema di Athina Rachel Tsangari l’uomo contemporaneo, borghese, che la regista osserva con lo sguardo analitico e interrogativo di uno scienziato (Attenberg, titolo del precedente film di Tsangari, è storpiatura di Attenborough, David, noto naturalista britannico). In Chevalier, il campo ristretto di una crociera di sei maschi in yacht permette di scandagliare il genere nel suo habitus caratteristico: quello della competizione maschile, mascherata da gioco – lo Chevalier del titolo – per eleggere «il migliore» dei sei. Ma a dispetto del nome evocativo, la partita è grottesca come la lotta tra maschi alfa per il vertice di una comunità senza femmine. Ciò che conta allora, e che paradossalmente “tiene a galla” il gruppo e la sua immagine, che definisce la sua identità – e quella della commedia – e ne garantisce la sopravvivenza, è la totale devozione dei singoli alla lotta, la loro piena adesione alla reciproca ostilità. Il racconto di un’unione armonica di maschi, di uno stare insieme nonostante la qualità triviale e arbitraria del loro gioco (fa punteggio, per esempio, la buona/cattiva postura notturna), condividendo il progetto di intrattenersi e intrattenere con la prevaricazione reciproca. È questo ridicolo lieto fine a fare del film una commedia riuscita.