
TRAMA
Cherry abbandona gli studi e si arruola come medico dell’esercito in Iraq, rimanendo ancorato al pensiero della sua amata, Emily. Quando ritorna a casa, il trauma della guerra è visibile in lui e finisce in una spirale di droga e criminalità.
RECENSIONI
Cherry va alla guerra e, quando torna a casa, non è più lo stesso giovane uomo: si è perduto e trascina con sé sul fondo la persona che sostiene di amare. Quante volte abbiamo visto questa storia? Molte, anche se, da Omero in poi, da Shakespeare in poi, la ricerca di originalità tematica è quasi un’utopia e non dovrebbe rappresentare l’ossessione principale dell’autore. Ci si potrebbe interessare di più alla capacità di sfumare le posizioni in gioco, con le pedine della scacchiera, mosse da mani che prevedono la sacrificabilità dei singoli pezzi, in virtù di un risultato complessivo, fatto anche di disturbi post traumatici da stress o di premature medaglie alla memoria. Si pensi a Il cacciatore…
La guerra al cinema diventa tanto più materica quanto più se ne coglie la portata metaforica: generazionale, certo, ma anche e soprattutto universale. Solo lavorando in quella direzione, forse, sentiamo la polvere che si alza da terra al passo dei soldati. Non è la vera polvere, ovvio, ma neppure un servo encomio o un codardo oltraggio rispetto a dei conflitti che sanciscono o rettificano il nostro grado di appartenenza a una certa epoca e ai suoi valori (basti riflettere sulla differente impostazione tra l’Enrico V di Olivier e quello di Kenneth Branagh, rispetto alla diversa collocazione storica dei due registi/attori). La realtà, qualunque cosa sia, è buona giusto per un verbale; lo schermo può catturarne una piccola porzione solo se la usa, se la tradisce, se si lascia stupire da essa. Cimino, appunto, lo sapeva. Lo sapeva bene anche Coppola che ottundeva la presunta moralità dello spettatore liberal e pacifista, mettendo in scena il titano Kurtz. Un titano… viene da pensare al più celebre, per ora, personaggio della filmografia dei Russo, quel Than-at-os che mi sembra avere, si parva licet, in termini almeno corporali, lo stesso limite che ravviso in Cherry – Innocenza perduta: la difficoltà ad andare oltre la forma didascalica del racconto. Nel caso di Avengers: Infinity War, la tragedia del grande Eterno non veniva costruita, ma detta, tra l’altro con la zavorra delle omissioni imposte dal target dell’MCU. Dove cercare là l’empatia nel mostro che era umanizzato soltanto quando dichiarava la sofferenza del lutto? Dove trovarla qui nella vittima che non è altro che l’etichetta di una definizione astratta? La voce fuori campo e gli sguardi in macchina di rottura della quarta parete, via via sfumati in una diversa focalizzazione, non ci aiutano: perché i due registi ci imboccano di continuo (la scena della mano ferita del nemico e le antitetiche reazioni del soldato tipo e del protagonista, su tutte) e non creano cinematograficamente quel mondo e i suoi conflitti, di rado così dicotomici? Dov’è quella che Carl Schmitt chiamava «l’irruzione del tempo nel gioco del dramma», se l’alienazione, il disagio di Cherry (e poi di Emily, ben tratteggiata da Ciara Bravo) non ci vengono mai presentati come il dolore lancinante di un uomo – e di una donna – senza identità, avviluppato in una società senza identità?
Con atmosfere da gangster movie che ricordano più il bello e autunnale Live By Night (Lehane è maestro nel narrare la compostezza che deflagra, Affleck ne seppe intuire la malinconia) che Taxi Driver, i fratelli Russo riescono solo in minima parte, a mio avviso, a fare quello che la primavera fa con i ciliegi. Il loro Cherry resta il testimone quasi inerte della propria storia; un narratore interno che si allontana progressivamente da se stesso e che appare, nel medesimo tempo, troppo a fuoco e sfocato. In altre parole, che non sboccia. E se questa potrebbe essere una qualità, in un lavoro rarefatto e spersonalizzato, è invece un limite quando ogni snodo narrativo risulta saturo di spiegazioni, di motivazioni anticipate. La chiave di un lungometraggio, per certi versi analogo, come American Sniper stava forse proprio nell’assenza di consapevolezza politica del protagonista, la cui immagine grigia, ombra su un apparecchio televisivo spento, infondeva al racconto il pathos di una mitopoiesi al contrario: il ragazzino vessato in famiglia si trasformava nel soldato patriota, nel salvatore. La retorica del salvatore-vittima restava però intrappolata in una densità cinematografica che Eastwood sapeva piegare al proprio volere tutt’altro che ciecamente nazionalista o guerrafondaio (non ci dimentichiamo Lettere da Iwo Jima). Il biblico veritas vos liberat si tramutava in un plumbeo nihil morte certium, una morte-tributo, spettacolarizzata fino a farla diventare una specie di evento tv, il macabro reality della nazione che, più di altre, ha fissato i propri cardini sull’idea del nemico oggettivo. Anche in Cherry vediamo delle bare avvolte nella bandiera statunitense, ma l’immagine finisce per avere un senso individualistico ed emotivo, non tanto politico. Come ogni altro elemento narrativo, del resto: la dipendenza da eroina, il sentimento distruttivo e auto-distruttivo per/di Emily, le rapine in banca (banche dai nomi alquanto singolari… purtroppo altrettanto sterili, se si voleva imbastire una critica al sistema). Il viaggio agli inferi del protagonista, al contrario di quello di Willard o di Nick Chevotarevich (ma anche di quello di Maya Lambert in Zero Dark Thirthy, con quel «non lo so» conclusivo, che è pietra tombale sul destino di un Paese che ha smarrito le coordinate), pare configurarsi sempre e solo in relazione al proprio microcosmo di affetti. Nessuna God Bless America, cantata a cappella, solo una musica strumentale, sui titoli di coda, per un film che gioca con Edgar Wright e i Safdie (l’ero di coppia di Heaven Knows What e lo squinternato racconto di formazione musicale di Baby Driver) e che, in alcuni momenti, trova un registro scanzonato, quasi beffardo, che particolarmente si addice alle corde interpretative di Tom Holland. In un contesto diverso, al quale si ammicca, questo personaggio sarebbe potuto diventare una sorta di Joker…
Tuttavia troppo poco, a livello complessivo, i due registi di Cleveland riescono a fare i conti con il recente passato e con il presente di un paese trafitto al cuore da conflitti insanabili, dentro e fuori dai propri confini; Cherry – Innocenza perduta è un lavoro che sembra non accorgersi, o accorgersi solo in modo marginale, introflesso, che a quel Paese, proprio quello di cui parla, quel gioco al massacro è costato tutto.
