TRAMA
Nell’Aprile del 1986, la centrale di Chernobyl diviene scenario di uno dei più gravi disastri nucleari mai avvenuti. Vigili del fuoco e i primi soccorritori sacrificano se stessi per contenere le conseguenze dell’evento.
RECENSIONI
Antonin Artaud scrisse della peste come entità psichica, ossia un reagente in grado di far emergere - proprio come il suo teatro - il carattere profondo e irriducibile degli individui e al contempo, in senso collettivo, l'emanazione di un clima, dello spirito di un tempo. La pandemia da Covid-19 in corso è il prodotto dell'Antropocene. E, continuando a seguire Arrtaud, non dobbiamo stupirci se abbiamo l'impressione inquietante e unheimlich che sia stata anticipata, prevista, quasi generata da una nube sempre più densa di prodotti culturali presaghi. Il virus era nell'aria prima di diffondersi nell'aria. D'altra parte le Twin Towers sono cadute molte volte al cinema prima di collassare strutturalmente l'11 settembre 2001. In un rosario di segni che arrivano fino a Billie Eilish con mascherina di Gucci ai Grammy Awards, si staglia potente Chernobyl, miniserie HBO che ha segnato l'anno passato, rappresentandone con ogni probabilità l'evento videoseriale più importante certificato dall'incetta di Emmy 2019 - a posteriori, necessariamente 2019, non poteva essere altro anno.
Chernobyl non è soltanto una delle serie più esteticamente belle, sconvolgenti e terrificanti di anni in cui la serialità insidia il cinema in fatto di valore artistico e probabilmente l'ha già superato in fatto di indotto. È anche una visione altamente pedagogica. Perché è lo stato dell'arte in fatto di produzioni HBO e anche - purtroppo - lo stato dell'arte in fatto di temi che contano e sono urgenti qui e ora. Ci sono pochissime licenze necessarie alla spendibilità per la sensibilità contemporanea, come l'invenzione del personaggio collettivo di Ulana Komyuk, interpretato da Emily Watson, che riassume tutte le donne medico e scienziato che ebbero un ruolo fondamentale e misconosciuto nell'URSS tutta maschile. Per il resto è la storia vera, indelebilmente incisa nella memoria collettiva e individuale, del più grande disastro nucleare della storia che andò molto vicino a segnare la fine del mondo o della civiltà umana come la conosciamo. Le vicende, i fatti, la storia vera, appunto. Quella che noi riconosciamo come la verità storica acclarata e depositata (cui gli sceneggiatori si attengono) non vale nella Russia neonazionalista guidata da Vladimir Putin dove il boicottaggio si è svolto a più livelli: contestando nel merito la ricostruzione russofoba dei perfidi yankee; gridando al violato orgoglio patrio (è noto che i patrioti non brillino generalmente per capacità di autocritica o autoironia); allestendo una macchina di contro-informazione tramite Sputnik e galassia di siti e giornali filogovernativi; infine girandosi la propria serie, la propria "Chernobyl". Niente di troppo sconvolgente: la storia è sempre stata scritta da una parte, solitamente quella che vince. Se non che poi restava sostanzialmente quella, fino al successivo cambio di regime. Il salto di qualità rispetto all'universalismo global degli ultimi decenni è che, nell'epoca del sovranismo, anche la storia ha sovranità limitata e deve negoziare con le ideologie locali. Nell'era della post-verità che diritto hanno di venirci a dire come sono andate le cose, per di più a casa nostra? Ma anche: l'epoca woke in cui tutti si offendono e pretendono una rappresentazione immacolata della propria nicchia non sta consegnando un'arma formidabile a autocrati fascistoidi come Vladimir Putin? In fondo il suo gruppo ideologico reazionario non può rivendicare lo stesso diritto di sottrarsi alla critica?
Gli altri temi caldi, invece, non stanno attorno ma dentro i cinque, densissimi episodi. C'è un perno filosofico, un asse attorno al quale ruota la sceneggiatura: la contrapposizione tra verità e menzogne. Nella forma specifica della follia burocratica che fu l'Unione Sovietica, dove i fatti dovevano aderire a un'ideologia (quando andava ancora quasi bene) se non a un tabella prospettica compilata da funzionari, la realtà si prende una rivincità colossale e apocalittica con l'esplosione del reattore 4 nella centrale nucleare di Pripyat. Se il disastro non divenne catastrofe definitiva fu grazie all'ostinazione verso la verità di alcuni personaggi, tutti per altro immolatisi alle radiazioni. Mentre uno dei principali mandanti della strage fu proprio la metafisica del soviet, ampiamente trattata e stigmatizzata da autori come Josif Brodskij, Slavoj Zizek o Mark Fisher. La burocrazia ha un grandissimo, involontario, tragico senso dell'umorismo, come sapeva bene Franz Kafka. Se fu disastro, fu perché la fisica doveva adeguarsi alle delibere di un direttore incompetente e irresponsabile (deresponsabilizzato dal sistema in cui operava, come Eichmann) nella prospettiva di una insignificante promozione gerarchica; se fu così grave è perché, per giorni, alla centrale si ostinavano a dichiarare una radioattività pari a 3,6 röntgen/ora, che era il massimo rilevabile dalla taratura degli strumenti. E, nella realtà parallela della burocrazia, una cifra scritta è tutto ciò che serve. Il dato effettivo, invece, era 20.000 röntgen/ora. Il rapporto numerico fornisce la scala con cui la realtà irrompe e esplode in centinaia di migliaia di morti e vite distrutte. E, se cambiano i modi, la violenza fondamentale imposta dall'uomo all'ecosistema è indifferentemente di ogni ideologia, tanto dei soviet comunisti quanto del capitalismo occidentale.
Sullo stesso asse verità/menzogna ma su un piano più immediato, la serie si propone anche come un legal thriller che ha l'ambizione di riconoscere colpevoli e vittime, riabilitare e condannare. La verità mitizzata è tanto giudiziaria quanto storica e il dibattimento si svolge in una corte che deve pronunciarsi per crimini contro l'umanità, per tentata strage dell'umanità. Purché - vedi sopra - non ci si illuda che risolvere il caso Chernobyl chiuda la questione, che sia molto più che un sintomo, per quanto eclatante, della modalità collettiva umana di occupare il pianeta. Questa è la modalità dello sfruttamento indiscriminato delle risorse (compresa l'evocazione faustiana di potenze più grandi di noi, come quella dell'atomo), dello sviluppo a ogni costo, un costo che viene scaricato differenzialmente prima sulle creature non umane - è molto significativo che l'area di foresta tra Ucraina e Bielorussia attorno a Chernobyl, zona rossa da 34 anni, sia diventata un santuario per la biodiversità: per animali e piante l'uomo è ben più devastante delle radiazioni - poi sulle vite umane dispensabili, per dirla con Judith Butler. Molto lungi da essere il paradiso egualitario che fu promesso col sol dell'avvenire, la Russia sovietica fu un sistema che sacrificava corpi in forme non troppo distanti dalla precedente, mostruosa, classista, necropolitica Russia zarista. Tantissimi morirono, atrocemente, per arginare l'esplosione di un reattore-bubbone. La serie correttamente insiste sulla individuazione, visibilità, specificità di storie esemplari, di personaggi quasi sempre realmente esistiti, per riscattarli dall'anonimato imposto in vita e in morte oltre l'eroico sacrificio.
Il discorso è quello foucaultiano sul potere come dispositivo in grado di somministrare la morte direttamente o di lasciar morire per negligenza. Il tipo di potere sovietico - ma, ripetiamo, lo stesso discorso vale per il doppio speculare capitalista che ha avuto molto più tempo e spazio per accatastare cataste di corpi triturati per lo sviluppo e il benessere di pochi - è non a caso un potere completamente maschile. I personaggi che vediamo contare a ogni livello, da Gorbachev in giù, dal Politburo centrale fino ai potentati locali della provincia ucraina (con l'eccezione, già citata, della dottoressa assemblata dagli sceneggiatori) sono solo uomini e non potrebbe essere diversamente per poter fornire un'immagine efficace, plastica della mascolinità del potere - con buona pace dei talebani-contabili della representation. Come nel mondo reale, non è ovviamente il loro sesso biologico a implicare deterministicamente se finiranno tra i buoni o i cattivi (idiozia identitaria). È il patriarcato - la struttura del mondo, il paradigma sociale di un occidente retto per secoli solo da uomini, con eccezioni femminili che spesso hanno saputo dimostrarsi più realiste del re - ad essere strutturato attraverso le regole della guerra di tutti, del darwinismo, della gerarchia che spiegano, al di là di errori umani, mancata manutenzione e caratteristiche accidentali del delirio sovietico, il disastro di Chernobyl. È maschile-patriarcale lo stupro del cosmo, il rapporto tanto cannibale quanto autolesionista nei confronti delle riserve naturali, gli ecosistemi fagocitati per essere trasformati in denaro, che generano gli spillover di virus da animale a uomo. Chernobyl parla dell'arma-fine-di-mondo del Novecento ma, aggiornando i termini all'Antropocene di inizio millennio, il senso non cambia. C'è anche un discorso, anch'esso quanto mai attuale, sul rapporto tra scienza e potere e quanto il potere possa, spregiudicatamente, cavalcare e anche incentivare superstizioni suicide pur di perpetrarsi (vedere la scena totalmente programmatica dell'incontro tra Emily Watson è il segretario locale del PCUS). A un primo livello ci leggiamo un riferimento sacrosanto a no-vax, terrapiattisti e compagnia delirante. Bisogna però considerare simultaneamente che il "sogno tecnologico bolscevico" è esattamente la scienza, il mito del progresso che si fanno mistica, religione materialista. L'uomo cosmonauta è lo stesso che fa deflaglare una centrale nucleare scassata che non viene dismessa per una tragica fiducia nelle magnifiche sorti progressive dell'energia elettrica. Il delitto Chernobyl vede quindi un'associazione a delinquere di antiscientismo oscurantista e culto della scienza sganciata dai propri limiti epistemologici.
Se la serie è tanto memorabile, tanto definitiva dello Zeitgeist non può ovviamente essere solo questione di "cosa" ma anche di "come". Si vede dappertutto il marchio HBO: la rete tv americana ha ridisegnato ampliandoli i confini dell'area del visibile nella serialità mainstream grazie a Game of Thrones il quale, al netto della fine ingloriosa, resterà nella storia come il Guerra e pace di inizio terzo millennio, la grande narrazione popolare che ha veicolato lo spirito del tempo in un fenomeno di massa (senza risparmiare per altro nulla in fatto di sesso e violenza, totem e tabù, almeno finché la serie non incontrò la sua dannazione quando diventò too big to fail). I temi traslati dal nostro mondo attuale in un universo altro fantasy che ne fecero un prodotto così dirompente (il potere e la cooperazione, il climate change, l'identitarismo, le migrazioni) sono più o meno gli stessi che Chernobyl investe su un fatto storico del passato recente: è un'operazione con tratti comuni. E, come Game of Thrones, Chernobyl è in fatto di messa in scena al tempo stesso altissimo artigianato e coraggiosa sperimentazione. La qualità artigianale viene da un cast impeccabile, composto da affermati come Stellan Skarsgaard, Jared Harris e Emily Watson e da uno dei migliori "giovani" (Barry Keoghan) ed è nel montaggio, nel ritmo, nella costruzione a incastro della storia che si gioca su più tavoli (la centrale, il Cremlino, gli ospedali eccetera) con una precisione e implacabilità degna di David Fincher. È soprattutto nell'aver osato e vinto una scommessa complicatissima: veicolare l'orrore del disastro solo tangenzialmente nel body horror convenzionale dei corpi suppuranti, cancerosi e mangiati, corrosi e ben di più nell'horror metafisico delle radiazioni, nell'impalpabilità e invisibilità di un mostro implacabile. Nelle scene di "liquidazione" avvertiamo fisicamente una presenza che non si mostra grazie alla costruzione del quadro, alla ricostruzione mimetica degli ambienti, al montaggio, alla dilatazione di alcuni passaggi fino al tempo reale e soprattutto a un sound design composto da una fusione senza soluzione di continuità di una partitura magnifica firmata Hildur Guðnadóttir (sono dappertutto questi islandesi) e suoni ambientali, contatori geyger, interferenze. L'effetto impressiona al punto di suscitare nello spettatore una fobia assoluta, ipocondriaca, irrazionale per la grafite: non guarderemo più le matite con la stessa innocenza.
Chernobyl è quindi un'esperienza formativa che ha, alla base, un'esperienza sensoriale. È una serie che ha tanto da dire, che non si esaurisce nella ricostruzione, nella fiction per raccontare un pezzo di storia come farebbe Superquark. Vuole, invece, parlare alla contemporaneità e dire che la violenza incessante dell'uomo verso il mondo, la natura, l'esistente, la durezza dei fatti, il sacrificio di ciò che vive e può soffrire a favore di realtà intersoggettive fittizie come lo stato o il denaro non possono essere altro che ritorcersi contro, nel 1986 come nel 2020. E che lo faranno con la cecità, l'illimitata violenza, la propensione al cataclisma delle forze ctonie.