Drammatico, Sala

CHERCHEZ HORTENSE

NazioneFrancia
Anno Produzione2012
Genere
  • 66465
Durata100'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Musiche
  • 57096

TRAMA

Damien è un professore di Storia Cinese che vive con la moglie Iva, una regista di teatro, e il figlio Noé. Il loro amore si è impantanato nella routine e nel disincanto. Per evitare che Zorica venga espulsa dal paese, Iva fa promettere a Damien che andrà a chiedere aiuto al padre, un funzionario del Dipartimento di Stato. Ma Damien e il padre hanno un rapporto distante e freddo, e questa missione è una faccenda rischiosa che trascinerà Damien verso il baratro…

RECENSIONI


Personalità assai eccentrica quella di Pascal Bonitzer, sceneggiatore, soprattutto (per Rivette, Ruiz, Téchiné), e regista, al sesto film (due sono apparsi in Italia: il capolavoro-emblema Petites coupures e l’anti-giallo Le grand alibi), di opere che, come la presente, si fondano su narrazioni impalpabili, fatte di fili sottilissimi, in cui le relazioni tra i personaggi emergono e si decodificano attraverso i malintesi, le conseguenti bugie, le sofisticherie per aggirare gli inconvenienti, appuntamenti mancati e rimandati. In Cherchez Hortense tutti i personaggi, anche quelli che appaiono solo per un attimo, sono descritti con una precisione e una dovizia di dettagli tale da farne possibili elementi rilevanti, quando non decisivi, perché i film di Bonitzer sono fatti di tanti frammenti, piccoli e grandi, che possono rivelarsi cruciali quanto superflui, di divagazioni continue che dipartono da un punto centrale mai completamente sviscerato, rinviato com’è di continuo dagli accidenti che si presentano sulla strada dei caratteri, la Questione rivelandosi un pretesto per dire altro: in questo caso della labilità delle relazioni, del perché non funzionano; di un dolore interiore così presente e pervasivo, per quanto eluso scientemente; di padre e di figli che non si comprendono; dell’attualità - l’immigrazione, i sans-papier, la crudeltà di una burocrazia che ignora l’umano e applica spietatamente i suoi schemi -, il tutto nei toni della commedia, linguaggio prediletto dal regista.


Situazioni minime, discorsi quotidiani, fatti di formule, di piccole ovvietà e frivolezze, che però tessono una ronde leggera le cui evoluzioni si fanno imprevedibili: il racconto prende una pista e la smentisce, altre rivelandosi false, fiorendo i tradimenti, le menzogne, le piccole realtà che non si incastrano mai a dovere nel quadro generale. Bonitzer, il cantore dell’imprecisione del destino, si tiene ben lontano dalle geometrie perfette delle narrazioni convenzionali: se la storia segue un filo lo fa solo per deviare improvvisamente, un po’ come succede ai personaggi in quella scena meravigliosa in cui, cercando un posto dove parlare, il padre apre con disinvoltura una libreria e fa strada al figlio in quello che si rivela un passaggio segreto. O quando, in un corpo a corpo, la pistola, che prima o poi doveva sparare, lo fa, ma lasciando lo spettatore al buio, con la curiosità di sapere cosa è accaduto. Si cerca Hortense (il titolo è già sviante: non si tratta di una donna, ma di un pezzo grosso a cui chiedere l’interessamento per una faccenda delicata, laddove la ragazza che si cercherà, scomparsa a metà film, si chiama Aurore) e che è palese mcguffin che giustifica il vagabondare del protagonista, a scoprire le sue magagne e quelle altrui in una narrazione costruita per assonanze: Damien, esperto orientalista, che si ritrova il ragazzo asiatico nel letto, lo stesso che si spupazza papà; la moglie, regista teatrale, che mette in scena Il giardino dei ciliegi a ricordarci che, triturato finissimo, in questo film c’è anche un po’ di Cechov; il discorso dell’identità nazionale, che riguarda Aurore (la scelta nel ruolo dell’immigrata di Isabelle Carré - la più francese delle nostre attrici, dice il regista - è deliberata) fa rima con quello dell’identità sessuale, ribadendosi, in entrambi, la necessità di abbattere le barriere e le catalogazioni; l’impegno astratto a interessarsi di una questione diventa concreto, per il protagonista, quando scopre che quell’astratto compito che gli è stato affidato coincide con la concreta situazione di una persona che ha conosciuto per caso.


Sembrano film fatti di poco quelli di questo autore perché si fondano soprattutto sull’armonia dei loro elementi, sulle ramificazioni continue di eventi il cui tono rappresentativo suona fatuo per velare veri e propri abissi di profondità (i riferimenti letterari, teorici, psicoanalitici): il cinema di Bonitzer gioca tutto su questa apparenza, resta in bilico scientemente sull'orlo dell’equivoco, un po’ lo cerca, vive sull'immediato margine di questo rischio, si fa amare per questo [1].
Una nota per gli attori: Bacri incarna l’antieroe indeciso, tipicamente bonitzeriano, con la finezza del grande interprete che è (la sua prova lascia il segno), Kristin Scott-Thomas è un’attrice dal registro invariabile, Carré fa il suo sempre dannatamente bene, Claude Rich è un regalo di cui ci si rallegra senza ritegno.