TRAMA
Il cadavere di un imprenditore viene ritrovato fuori città. Il giovane Tommaso, figlio di una famosa attrice risposata con un potentissimo avvocato, perde la vita in un equivoco incidente stradale. La polizia nicchia, il detective Corso no.
RECENSIONI
I fanatici delle letture autorialiste potrebbero sostenere che a Marco Risi riescono due cose: trasfigurare la cronaca in (melo)dramma – operazione che ha figliato due solenni polpettoni come Il muro di gomma e Fortapàsc, rispettivamente sulla strage di Ustica e sull'uccisione di Giancarlo Siani, e in maniera più sottile il misconosciuto Il branco – e raccontare realisticamente gruppi sociali emarginati – Soldati, Mery per sempre e Ragazzi fuori. Tutto il resto della produzione, ovvero le commedie e i biopic, apparterrebbero al gloriosissimo genere “alimentare”, quello che, come dice (senza ridere) chi lo pratica, permette di reinvestire i proventi nel cinema sperimentale, giovane ed alternativo.
Chi ha la fortuna di essere immune dall'autorialismo, forse non a torto butta il cinema di Marco Risi nel paiolo della produzione media “impegnata”, piaga nazionale giusto un gradino sotto il traffico e la mafia, e non nutre alcuna aspettativa, magari nessun interesse.
Poi, d'improvviso, Marco Risi firma un noir con (quasi) tutti i crismi. Che è successo?
Tre mesi fa utilizzavo pretestualmente Viva la libertà per provare a ragionare sulla crisi del “cinema medio impegnato” e sul suo attuale processo di restyling, in quel caso sotto la maschera della commedia di costume. Da allora, curiosamente, gli unici film vagamente riconducibili al morbo sono stati gli esordi alla regia del lungometraggio di finzione di Alessandro Gassman, Valeria Golino, Luigi Lo Cascio e Alina Marazzi – film diversi e diseguali che propongono, al contrario dei loro predecessori, un concetto non paraculo di militanza ed identità politica. Ancora è presto per parlare di fuga dalla nave che affonda, tanto più che i pesi massimi (Rulli e Petraglia, Luchetti, la Cattleya) stanno tutti lavorando a Storia mitologica della mia famiglia, però il ricorso alle strutture di genere mi sembra nondimeno eloquente. In particolare, il caso di Cha Cha Cha è ancora più interessante perché tenta persino qualcosa di più che mutuarne gli stilemi.
Il film, paradossalmente, affonda le proprie radici nel noir – che personalmente ritengo un periodo storico più che un genere, tanto è imbricato con la società americana degli anni Quaranta e Cinquanta – più che nel neo-noir – etichetta scomoda che raggruppa quelle opere che dalla fine dei Sessanta ad oggi riprendono i codici del genere (ma non le marche stilistiche, in senso stretto) accentuandone violenza, alienazione, psicosi, disillusione e metadiscorsività. Lo dimostrano la fotografia di Marco Onorato tutta giocata sui contrasti tra luce e ombra, le situazioni hard-boiled e la sceneggiatura hard-assed, la resa plastica e notturna di una Roma immaginaria, il repertorio di tic iconografici che si riconoscono a prima vista come anacronistici. Al tempo stesso, tutto il film è costellato di citazioni e soluzioni registiche che occhieggiano ad un cinema di altra caratura (gli ottimisti hanno saputo vederci Cronenberg, Polanski, Lynch – io, meno ambiziosamente, Soderbergh e Drive) ma che, certamente senza volerlo, finiscono per rimestare nell'action – d'altronde bisognerà pure trovare un lessico da qualche parte.
In fin dei conti, tutti gli elementi del film che potrebbero in qualche modo essere innovativi, e non semplicemente derivativi, non sono che accennati. C'è, per esempio, uno spunto degno di nota sullo sguardo tecnologico che pare voler imbandire un discorso sul voyeurismo e sulla sorveglianza in epoca postmoderna – penso al fotografo e all'intercettatore, figure impregnate di fascino che tuttavia restano sullo sfondo, e all'uso dei social network e delle tecnologie video –, come all'incirca nei pressi dell'ultimissimo De Palma. In questa direzione vanno anche certi scenari tecnotronici che molto raramente si erano visti nel cinema italiano. Oppure, ancora, un casting volutamente anticinematografico, in cui compaiono giusto creature televisive (Amendola e Argentero) e teatranti (Cuticchio, Delbono, Storti), che rimane giusto un'eccentricità sulla quale si sarebbe potuto lavorare. Roba che non interessa a Risi e ai suoi fidi sceneggiatori (ancora una volta Andrea Purgatori e Jim Carrington), che invece hanno a cuore – monomania del cinema impegnato – la denuncia iperpopulista del marcio.E qui bisogna fare i conti con il genere. Il noir, convinzione personale, è un genere strutturalmente sovversivo, il cui carattere di fondo è un'ambiguità che permea del tutto l'universo filmico, così da rendere assai labile il confine tra giustizia e crimine, tra eroe e fuorilegge, tra bene e male. È una critica ontologica delle istituzioni che puntualmente termina con la resa dell'eroe, che, pur avendo risolto più o meno brillantemente il caso, continua ad essere vittima dell'ingiustizia e della bruttura del mondo (e nel neo-noir delle proprie inquietudini e delle proprie patologie). Insomma, se è vero che la denuncia può farsi con quel che il genere mette a disposizione, allora bisogna scavare nel cospiratorio – e Cha Cha Cha non si può dire che non ci provi – ma a condizione che ci si creda quantomeno paranoici, se non altro incapaci di reggere il timone della verità. Al contrario, il film è intriso di un manicheismo estenuante da buoni dai bei faccini e cattivi dall'aria truce, di un moralismo grigio e perbenista, di un desiderio di mostrarsi ancora una volta innocenti a tutti i costi (come nei soliti film-inchiesta sulla faccia crudele del potere). La morale è semplice: non si può fare iperrealismo con i fantasmi.

Marco Risi porta avanti la bandiera di genere che non dimentica di dare una sbirciatina alla politica: compone un noir con tutti i crismi, lo immerge in una Roma notturna, trova in Luca Argentero il volto adatto in continuità con il cinema americano, per dare corpo al classico, solitario investigatore privato, caparbio e contro tutti. Ha citato come modello Chinatown, c’è il Marlowe de Il Lungo Addio che si accende le sigarette con i fiammiferi, Argentero è anche protagonista di una colluttazione con tre uomini dopo la doccia che cita La Promessa dell’Assassino: ma non c’è nessuna velleità di eguagliare o superare i modelli, solo comunione di intenti. Risi cesella un giallo che appassiona negli indizi sparsi ma punta anche al microcosmo allegorico del nostro paese (i passi del ‘cha cha cha’: avanti e indietro), di cui restituisce demoni e paradossi attraverso l’avvocato/imprenditore “politico” di Pippo Delbono (perfetto per la parte) che, in nome del benessere, si collude con la malavita (peccato per la scena del confronto con Corso, con concetti urlati e ansia di manifestare la matrice politica); attraverso il ballo finale, con Nino Frassica presentatore che sentenzia “Questa è l’Italia che amiamo”; attraverso, soprattutto, lo sfuggente, ambiguo poliziotto di Claudio Amendola, al servizio di “uno” Stato non corrotto ma privo di ideali, pronto a non andare oltre le comode evidenze (le messinscene di suicidi/delitti), a sporcarsi le mani per un “bene” superiore o, se occorre, a fare piazza pulita di buoni e cattivi. Il cha cha cha di chi crede, attraverso varie manomissioni, di aver tutto sotto controllo, e poi scopre di essere stato “battuto” dai suoi stessi mezzi, perché l’Italia è una rotonda di falsi tracciati e prove insabbiate, con vari centri di potere in azione, tutti atti ad allontanare la Verità. Un gioco al rimpiattino in un paese ballerino: una riflessione evocata e instillata nello spettatore che vale e dice molto di più di tanto cinema civile, di denuncia, con ricostruzione di fatti veri, che Marco Risi frequentava in passato. Dedicato al direttore della fotografia Marco Onorato, scomparso nel 2012.
