TRAMA
In un villaggio nel nord della Thailandia, ventisette soldati sono affetti da una misteriosa malattia del sonno. Jen, una donna del luogo, si prende cura di loro.
RECENSIONI
Quante meraviglie celano le lussureggianti foreste del nord-est thailandese: tigri mangiauomini, principesse ancestrali, anime trasmigrate nel corpo di una grande scimmia. Nell’incanto del momento – che è oggi, ieri, sempre – il fruscio del vento fra le foglie, le cicale che friniscono, il passo nervoso delle formiche sulla terra umida, liberano il desiderio e lo plasmano nelle forme di un clandestino laotiano, un soldato che urina sul ciglio della strada, un pesce gatto in attesa nel lago. Il cinema di Apichatpong Weerasethakul – già di diritto nel novero dei grandi maestri contemporanei – è una camminata a passi felpati sul crinale estremo della realtà e della sua percezione: tutto è sospeso eppure così sensuale, sublime ma incredibilmente terreno. Memorie, azioni presenti, intuizioni future, e poi corpi fatti di carne e fantasmi di solo spirito, tutto occupa lo stesso spazio, in un movimento di completa fluidità, di connessione e compenetrazione, tanto più stupefacente in quanto presentato senza alcun stupore. È nell’ordine delle cose vedere le proprie vite passate, cambiare pelle, dare corpo alle memorie.
Lo zio Bonmee che si ricorda le vite precedenti, Palma d’Oro 2010, si presentava come una summa del pensiero di Apichatpong all’apice di un percorso cinematografico entusiasmante: Blissfully Yours (2002), Tropical Malady (2004), Syndromes and a Century (2006). Cemetery of Splendour prosegue lungo lo stesso sentiero, imprimendo questa volta un gesto più personale, delicatamente autobiografico. Il viaggio nel cuore delle foreste del nord si ferma infatti a Khon Kaen, città natale del regista, simboleggiando così un tentativo di indagine della memoria e nella memoria, tanto privata quanto collettiva, alla ricerca di ciò che è rimasto e di ciò è irrimediabilmente cambiato. Abbiamo così una scuola, riadattata ad ospedale di fortuna (i genitori del regista erano medici). Vi sono ricoverati dei giovani soldati, colpiti da una misteriosa malattia del sonno. Medici e volontari vegliano al loro fianco, le famiglie vengono a trovarli, il torpore rimane insondabile, le possibilità di risveglio remote. Ma il sonno non è un ostacolo invalicabile, un muro, una stanza chiusa, ma solo un altro modo di essere nel mondo, o meglio, fra i mondi, i quali, compenetrandosi per stato naturale delle cose, lasciano aperti spiragli per il passaggio, per la comunicazione. “Il nostro problema è che pensiamo troppo” afferma un personaggio. Misure più sottili vengono così messe in campo per gestire il malessere imperscrutabile: la cromoterapia, la meditazione, la telepatia. “Vedo la sua vita passata” dice Keng la telepatica alla moglie del soldato dormiente. “Concentriamoci sul presente” tira corto la donna, interessata solamente a scoprire se il marito ha un’amante. Dialogo minimo e folgorante, cortocircuito di alto e basso, che ci ricorda che nulla nel cinema di Apichatpong Weerasethakul è innocente o puramente magico: siamo sempre parte della malizia terrena, sporchi della polvere rossa del mondo.
Non c’è dunque spazio per un equivoco di esotizzazione nel cinema del maestro thailandese. Spiritualità e visioni da altri mondi sono sempre sullo stesso piano di dettagli reali e piccole meschinità terrene: camion dell’esercito, ruspe, miracolose creme per la pelle, balli di gruppo. Jen, protagonista zoppa, porta il marito americano sovrappeso (incontrato online, altro luogo liminale della realtà) in un tempietto per offrire doni rituali allo spirito delle antiche principesse laotiane che lo abitano, raffigurate in forma di due statue. Succede poi che qualche giorno più tardi le principesse assumono fattezze umane, parlano con Jen e le offrono della frutta. Le rivelano che i soldati non si risveglieranno mai più. Le rivelano che l’ospedale è costruito sulle rovine di un antico cimitero dei re, sepolti secoli addietro dopo una battaglia sanguinosa fra regni rivali. I re sono ancora lì e continuano a combattere nell’aldilà, alimentandosi dell’energia dei soldati dormienti per portare avanti la propria millenaria lotta. Sono quindi delle figure mitiche, adagiate sul confine fra passato e presente, naturale e sovrannaturale, ad offrire una chiave per un’interpretazione meno estatica e più politica di Cemetery of Splendour. Già negli anni precedenti tormentata da instabilità e dissidi interni, in seguito al colpo di stato del 2014 la Thailandia è attualmente guidata dalla giunta militare golpista. Dunque il sonno potrebbe diventare semplicemente una metafora dello stato delle cose: i potenti che sfruttano e prosciugano le giovani energie del paese (“Non vedo futuro come soldato. Al massimo mi usano per pulire le auto dei generali”, afferma un personaggio). Ma la visione panica e fluida del regista ci concede il lusso di un’altra interpretazione, più aperta, resistente: il sonno come evasione da una condizione politica opprimente, non come gesto di ignavia, ma come ricerca di un diverso livello di realtà.
È così che possiamo concepire il sonno solo come un altro modo di pensare alla veglia, una veglia altrove. Ed è per questo che Jen vede svegliarsi e parla con Itt, soldato senza parenti di cui decide di prendersi cura. Per lei è lì, in piedi, reattivo, per gli altri non si sa. Sonno e veglia sono stati relativi. Jen e Itt mangiano assieme nell’affollato mercato notturno della cittadina, sono fra la gente, nel caos della vita urbana e quotidiana. Lei lo guarda con occhi rapiti questo soldato dal viso bello e dolce, ben più giovane di lei. Forse tradisce un’ipotesi d’amore (“Love in Khon Kaen” era il titolo di lavorazione del film). Nulla è dato, tutto è possibile: sta allo sguardo dello spettatore riempire un’immagine vuota. È uno sforzo di magnifica evocazione quello che il regista ci richiede, come nella passeggiata di Jen e la telepatica Keng negli spazi della foresta un tempo occupati da case, oggetti, azioni, non più manifestabili visivamente, ma evocati attraverso un atto di memoria che rivela a poco a poco il proprio potere struggente. Si giunge così alla scena più enigmatica, potente e respingente, culmine weerasethakuliano del film: sedute su una panchina, Keng lava con una bevanda speciale la gamba malata di Jen, la massaggia, la cura, le bacia il piede infermo (quasi un parallelo con la scena centrale di Tropical Malady, quando il giovane bacia il pugno dell’amante). Jen piange di un pianto misterioso. Forse Keng le ha passato il suo potere telepatico, spalancandole una volta per tutte l’accesso a livelli diversi dell’esistenza? “All’improvviso riesco a leggere i tuoi pensieri. Ho visto il tuo sogno” dice trasognata Jen, “E io il tuo” le risponde il soldato Itt.
Il finale ci ripiomba nella realtà più mondana: le ruspe in azione scavano e alzano mucchi di terra, fra cui i ragazzi del luogo cercano comunque di giocare a calcio. È un progetto segreto del governo, si dice, costringerà tutti ad andarsene. Jen è lì e osserva tutto con occhi esageratamente sbarrati: occhi sbarrati verso un fuoricampo indefinito, per non dormire, per non farsi risucchiare l’energia. O al contrario, uno sforzo di auto-ipnosi, il tentativo di discendere finalmente nel regno dei sogni.