TRAMA
Roma, maggio 1946. In balìa di un marito padrone e di un suocero canaglia, Delia ha come unica aspirazione che la sua primogenita si sposi “bene”. Tutto sembra già scritto, ma l’arrivo di una misteriosa lettera metterà in discussione i piani stabiliti.
RECENSIONI
Dopo una florida carriera come personaggio televisivo, comica, imitatrice, attrice, Paola Cortellesi debutta alla regia e si traduce per immagini attraverso un cinema popolare e di spessore, capace di ancorarsi alla tradizione della commedia italiana ma anche di distaccarsene con personalità. Un cinema che riflette l’immagine che abbiamo di lei, con un grande carico di umanità come motore della sua capacità espressiva. La storia è ambientata nel dopoguerra, dove la protagonista, Delia, deve districarsi tra i doveri quotidiani di una donna di umili origini dell’epoca, in cui alle difficoltà oggettive del tirare avanti, mentre la guerra lascia ancora i suoi strascichi, si somma il fatto che, essendo donna, conta poco o nulla ed è completamente asservita alle figure maschili. In giornate che passano sovrapponibili tra lavoretti, dedizione alla famiglia e violenze domestiche, con l’unica distrazione delle chiacchiere ritagliate con l’amica fruttivendola e l’ex amore di gioventù, si fa strada la consapevolezza di valere qualcosa di più del poco che è costretta ogni giorno a sopportare. Una misteriosa lettera sembra aprire la speranza a un futuro migliore. Scritto con grande cura nelle caratterizzazioni e nella scansione degli eventi, il film non si accontenta del bozzetto storico attraverso un bianco e nero che evoca all’istante il neorealismo, ma prova anche a dire qualche cosa sulla condizione femminile che non sia scontato o retorico. Quella di Delia è la storia di una donna che reagisce a modo suo, come può e come riesce, a una vita ingiusta e che prova a riconquistare una dignità che le è stata portata via senza che quasi se ne rendesse conto.
Per dare concretezza al suo sentire la Cortellesi regista sperimenta, giocando con i formati, dando ampio spazio alle scelte musicali che assumono valenza narrativa, trasformando con coraggio, e non senza stridere, alcune sequenze in audaci balletti (le botte dal marito a passo di danza) o in momenti leggeri (il cioccolato che annerisce i denti). Non opta, come era più scontato, per il dramma a senso unico, ma trova uno stile personale in cui la tristezza evocata si bilancia con la capacità di sdrammatizzare. Tutto ciò fa passare in secondo piano alcuni dialoghi a uso e consumo dello spettatore (le donne nel cortile che ripetono per noi cose che loro già conoscono), alcune approssimazioni (le conseguenze “esplosive” dell’amicizia con il soldato americano, il raccordo meno riuscito) e mette anche a tacere un interrogativo che si fa subito strada: ma siamo ancora lì, in quell’Italia in bianco e nero tra le macerie che piace tanto agli americani? La risposta è nel retaggio culturale ancorato al patriarcato che ispira ancora troppo spesso il nostro agire. Ben venga, quindi, un cinema che con sensibilità e senza piegare la forma suadente al messaggio - che arriva perché è naturale evoluzione del racconto e non perché spiegato dai personaggi - ci ricorda quello che era, che in parte è ancora e che invece potrebbe essere. Nella coralità del cast si distinguono, oltre alla brava e in parte protagonista, un Valerio Mastandrea mai così cattivo, la spontaneità di Emanuela Fanelli, ormai la caratterista perfetta, e la portatrice di luce Romana Maggiora Vergano.
Delia è una donna romana che nell’Italia del dopoguerra si muove veloce ronzando da una parte dall’altra della città, svolgendo mille lavoretti pur di racimolare qualche soldo. Sposata con un marito rozzo e manesco (Valerio Mastrandrea), madre di tre figli (una femmina e due maschi), vive dentro un appartamento modesto e scarno, con un suocero (Giorgio Colangeli) allettato e altrettanto misogino cui fa da badante. Il quartiere, il vicoletto, il cortile sono il suo piccolo mondo e costruiscono una geografia familiare rassicurante e allo stesso tempo asfissiante. Delia è una donna invisibile, dimessa, una delle tante donne-ombra non viste, non rispettate, non considerate. Il suo ruolo è quello di moglie e madre, serva e sguattera. La sua vita è una corsa continua, piena di affanni e frustrazioni. Una vita povera e disillusa, ma che sa regalare piccole gioie inaspettate e può ancora far battere il cuore per un vecchio amore mai consumato, non corrotto né alterato dal tempo. Paola Cortellesi, attrice comica e brillante italiana tra le più amate, esordisce dietro la macchina da presa in un film in bianco e nero che, per atmosfere e contiguità, cerca il dialogo, omaggiandolo, con Una Giornata Particolare di Ettore Scola. C’è ancora domani è un film buffo, drammatico, a tratti sorprendente. Ha la sfrontatezza, il coraggio e l’incoscienza dell’opera prima. Le donne laboriose e vitali che Paola Cortellesi mette in scena sono tante ed eterogenee, il dialogo tra loro è fitto e generazionale: c’è la figlia innamorata (Romana Maggiora Vergano) prossima al matrimonio che non ha potuto studiare (lusso che spettava ai fratelli maschi), l’amica fidata (Emanuela Fanelli) che lavora al mercato sposata con un uomo buono, esuberante e malinconica, la donna della merceria (Paola Tiziana Cruciani) di cui sappiamo poco ma ne intuiamo il carattere fiero e risoluto, la portinaia ficcanaso e le donne del rione: pettegole e dispettose oppure complici e sororali. Sono tutte donne che, mute, pazienti e rinunciatarie, hanno fatto l’Italia, hanno sperato un futuro migliore per i propri figli, hanno scelto senza saperlo (e quasi senza volerlo) di diventare protagoniste della Storia, di uscire dal cono d’ombra dell’anonimato. Gli uomini invece sono grevi e gretti, oppure tonti e fragili, pur nella loro muscolarità (l’unica forza apparente). C’è ancora domani è un film dichiaratamente femminista, per come decide di stare orgogliosamente dalla parte delle donne e per come dona loro importanza e dignità, ma non è un film storico in senso stretto (per quanto faccia i conti con quella porzione di storia), non pretende la verosimiglianza tout court né si affida al rigore vibrante neorealista. È sì minuzioso nel restituire gli echi di un tempo e un clima oppressivo, ma anche lieve e ironico nel trattare gli aspetti più cupi e meno distensivi. Paola Cortellesi non cerca la risata facile, il twist furbetto, la scena madre a tutti i costi, vieppiù dosa con grande equilibrio dramma e commedia, dolore e riscatto. Il grande pregio è quello di aver saputo costruire uno spazio scenico credibile in cui far esibire un femminile schiacciato, vessato e apparentemente distante dal presente, e invero, purtroppo, ancora tragicamente moderno e attuale. È cinema popolare e intelligente che conosce l’intonazione giusta e sa quale corda emozionale sfiorare per irretire, coinvolgere, intrattenere. I movimenti di macchina sono morbidi e circolari, oppure nervosi e febbrili a seconda degli stati d’animo e degli affanni di Delia. La tensione emotiva culmina sempre con il gioco beffardo o il riso amaro (intensa e straniante la sequenza in cui le violenze domestiche si trasformano - per trasfigurare l’orrida realtà - in un passo di danza funereo e tremebondo). Il film è corale, pieno di afflato e respiro, e gli si perdona, per eccesso di entusiasmo, qualche momento sopra le righe e non perfettamente a fuoco. Le donne raccontate da Paola Cortellesi sono donne che un poco alla volta scoprono di avere una voce, un’identità, un corpo. Un corpo desiderante, ma anche sociale, ribelle e insofferente. L’anno è il 1946, e per la prima volta sarebbero andate a votare.
Paola Cortellesi gira la sua opera prima con intelligenza e scaltrezza, evitando i possibili disastri connaturati all’operazione come un gatto che corricchia su una mensola piena di soprammobili e si limita a sfiorarne alcuni, senza farli cadere. Sceglie l’omaggio mimetico al cinema italiano che conta, con tanto di bianco e nero retrò e parti girate in 4/3, ma non sconfina nel didascalismo fine a se stesso o, per così dire, scolastico. Il neorealismo (nelle sue varie declinazioni), la commedia all’italiana, Anna Magnani, c’è un po’ di tutto in C’è ancora domani, ma tutto sembra scorrere via con naturalezza: sceneggiatura spigliata, attori in parte, regia invisibile (in senso buono) ma nemmeno troppo, siparietti inattesi che funzionicchiano - ma possono anche infastidire - (le parentesi surreali/musicali che stemperano - senza minimizzarla - la violenza domestica). Si ride sotto i baffi, ci si indigna orgogliosi del proprio senso civico e sociopolitico, si chiude un occhio su parentesi obiettivamente poco riuscite (la sottotrama del soldato americano) e si sta in tensione fino alla fine.
Perché il punto sul quale vorrei soffermarmi in questo commento è proprio l’idea che sostanzialmente sorregge, strutturalmente, tutta la sceneggiatura e la fa funzionare da un punto di vista meramente “intrattenitivo”, se così si può dire (e non si può): l’agnizione finale che rivela che lo spettatore è stato ingannato. Non era la fuga d’amore, dunque, la forma di rivalsa e ribellione a una realtà patriarcale opprimente e violenta ma il (diritto di) voto. Se si prende come parametro di riuscita la suspense generata a la reale sorpresa che riesce a suscitare l’effetto sorpresa, potremmo dire che l’idea ha funzionato. Ma ci sono un paio di però. Il primo riguarda la credibilità della svolta, da un punto di vista di coerenza (non solo) interna della sceneggiatura, l’altro il suo impatto sulla natura stessa del film. Dal primo punto di vista, i depistaggi perpetrati ai danni dello spettatore risultano, col senno di poi, troppo evidenti e artificiosi (lo sguardo di Delia all’apertura della “lettera”, la sequenza in cui Nino prepara la valigia). Mentre, per quanto riguarda il secondo però, a mio avviso il più importante (non in senso buono), il film rischia di incanalarsi sui comodi ma insidiosi binari del “film a tema”, di impegno sociale/civile/democratico (direi quasi pedagogico), finendo per indebolire la sua vis liber(tari)a, sentimentale e tragicomica (in senso buonissimo). Un trick ending, una svolta quasi shyamalaniana, quindi, cinematograficamente ben apparecchiata che però, purtroppo, costringe alla rilettura fulminea del film, dalla quale rilettura il film esce banalizzato e, dispiace dirlo, perfino un po’ mortificato.
Se c’è una cosa da non fare quando si guarda al passato, è proiettare su di esso le categorie del presente. In quel modo, qualsiasi orizzonte storico viene meno, perché il passato viene ridotto a nulla più che una fase del percorso che, necessariamente e irreversibilmente, porta a un presente che viene visto come un blocco rigido e privo di alternative, tanto quanto il passato che vi avrebbe condotto.
Detto questo, se c’è una cosa che abbiamo imparato tutti al cinema è che essere bacchettoni ha poco senso. Anche quando si fa una cosa che non si dovrebbe fare, un motivo ci sarà. E quindi anche quando un film si pone in maniera sbagliata, per esempio verso la Storia, un motivo o l’altro ci sarà. Dunque portare fino in fondo un approccio anche sbagliato come quello di questo di film verso la Storia porta, se non altro, a fare chiarezza sul desiderio nascosto sotto questa ostilità verso l’orizzonte storico. Ostilità che, oggi, si respira da molte parti, e non certo per colpa di Cortellesi che non ne è, come tutti i registi rispetto alle ideologie della loro società di riferimento, che un catalizzatore.
Già quasi cinquant’anni fa Fredric Jameson parlava del nostalgia movie come della categoria-chiave del cinema postmoderno: un cinema, cioè, che guarda al passato come a un cadavere inerte, e su di esso infierisce con il più sfacciato degli imbellettamenti cosmetici per ribadire che il passato appartiene alla Storia, mentre al presente spetta, su un piano completamente indipendente, la fine della Storia. È ciò che fa Cortellesi, che prende il cliché della Roma popolana del 1946 (non manca nulla: dalla cioccolata americana agli attacchini con o senza bicicletta) e vi applica sopra una macchina da presa mobilissima, prontissima a non far perdere allo spettatore nessun dettaglio significativo, nessuna reazione dei personaggi, nessuna sottolineatura pesante. Il presente indulge nell’autoglorificazione posando il suo occhio su un passato che vede ancora mancante di ciò di cui, nel presente, viene strombazzata non solo la presenza ma persino una collocazione che ormai più al centro del mainstream non si può: l’emancipazione femminile. Totale paternalismo del presente verso il passato “patriarcale” dunque: tant’è che la forma simbolica per eccellenza dell’Italia proletaria postbellica, ovvero il melodramma matarazziano, che esprimeva in maniera indiretta i desideri repressi di emancipazione sociale e di genere, viene convocato (in maniera non dissimile dal film che quest’anno ha vinto la Palma a Cannes) solo per assestargli un calcio in faccia. No, Delia non è una Stella Dallas de noantri, e non proietta il suo impossibile desiderio di emancipazione sul matrimonio della figlia. Poiché, invece, il passato non è nulla e il presente, col suo punto di vantaggio di osservazione retrospettiva, è tutto, Delia sarà piuttosto in linea con ciò che decenni dopo segnerà la fine dell’orizzonte storico in Italia: il terrorismo, l’inizio della stagnazione, della palude socio-economica e culturale che ci sta attanagliando ormai da decenni. Con una bomba messa con l’ausilio di un militare statunitense (e qui davvero c’è chi pensa agli anni Settanta e chi mente, tertium non datur), Delia nega che la Storia, e il progresso sociale che dovrebbe informarla, possano essere innervati da qualunque istanza narrativa. Piuttosto, il suo agire risponde solo a una cieca, assoluta fede che la Storia proceda a prescindere da qualsiasi istanza effettivamente raffigurabile.
Impressionante, insomma, come nel film l’abolizione della Storia e la sua riattivazione si diano continuamente la mano. Così, de botto, senza senso, il vicolo cieco esistenziale in cui si trova Delia, senza alcuna via d’uscita, viene risolto dal suffragio universale, di cui il film si è fin lì fregato altamente per quasi tutta la sua durata. E così, de botto, senza senso, il marito di Delia, tombarolo al limite del disumano incapace di qualsiasi interazione con la moglie che non sia il riempirla di botte, di colpo diventa “buono”. In un film non certo immune dall’inveterata mania del cinema di ipersceneggiare e di raffazzonare pezze causali a qualunque costo (la foto fatta trovare per strada da Delia per poterla fare incontrare con l’americano…), colpisce che questo doppio voltafaccia finale non venga assistito da nessuna gradualità, da nessun evento precedente che cominciasse a suggerire una qualche rilevanza per le elezioni o una qualche trasformazione di quel personaggio. E questo perché, con questo U-turn, si rende visibile la faccia che continuamente, fin lì, il film ci aveva fatto intravedere: la nostra. A quel punto, in altre parole, il desiderio che informa questo sfacciatissimo rifiuto di ogni orizzonte storico che non sia la pura e semplice vampirizzazione del passato da parte del presente acquisisce visibilità. Solo con un certo imbarazzo, infatti, è possibile accogliere un finale che esalta l’impatto del voto quando, oggi, non è più rimasto nessuno che creda a qualche utilità dello strumento elettorale. È in questo senso che le elezioni del finale non sono un’incarnazione del processo storico (va ribadito: Delia crede a nessuna di queste incarnazioni, ma piuttosto al fatto che la Storia esista e proceda per conto proprio a prescindere da qualunque di esse), ma una manifestazione sintomatica del desiderio inconscio della nostra società del 2023, di qualunque colore politico essa sia. Non più, come suggerivano le premesse dell’operazione di Cortellesi, stella polare che guida il passato in senso unidirezionale, il presente scopre invece al proprio centro un vuoto: quello dei corpi intermedi di rappresentanza che il terrorismo (col quale di fatto ha fine l’Italia repubblicana, come non smette di ricordarci Bellocchio tra gli altri) ha cominciato a smantellare, e di cui oggi tutti sentono una tremenda mancanza.
C’è ancora domani, insomma, fa di tutto per farci credere che la Storia, a lato di e indipendentemente da qualsiasi narrativizzazione, esiste e segue la direzione intrinsecamente migliore e progressiva, ma lo fa in modo tale che l’amaro in bocca per la e il fine di questo percorso, che sarebbe il nostro presente, non si possa non sentire. La Storia è convocata solo come maschera del nostro desiderio di Storia. Il nonno fascista, chiarissima epitome di un passato rimosso che più lo elimini e più quello ritorna, e la figlia di Delia, il cui futuro è per la madre fin troppo identico al suo passato, cancellano a vicenda le rispettive traiettorie: de-sostanzializzata la Storia (e con essa il trauma: la violenza domestica, valvola di sfogo dei conflitti sociali che il patriarcato non riesce a padroneggiare, è un balletto dove ambo le parti sono di fatto consenzienti), rimane solo il nostro sguardo, privo di sostanza, che la Storia la rivuole per risolvere il conflitto ancora aperto tra le due inveterate anime asimmetriche del nostro ethos nazionale: nichilista e anarco-terrorista da un lato, istituzionale dall’altro.
In questo film così conciliante eppure così pieno di contraddizioni, a rammendo segue strappo e a strappo segue rammendo. Anche quando la Storia, con i suoi eterni rimossi che ritornano, non c’è più, c’è sempre (come la vecchia sbucata da nessuno sa dove al funerale del nonno) qualcuno che la piange.
(7 novembre 2023)
Post Scriptum
Visto che più o meno tutti davanti a questo film si sono messi a dire “mia nonna qui, mia nonna là”, aggiungiamo a questo scempio un altro spunto derivante, in maniera del tutto inutile e malposta, dalla biografia personale.
Mio nonno, negli anni Cinquanta, al cinema ci andava. Andava a vedere i film con Amedeo Nazzari perché gli era piaciuto, in particolare, il megahit di Raffaello Matarazzo Catene. Melodramma a tutt’oggi esemplare, e che reggerebbe il confronto alla grande con gli ultraclassici del genere, tipo Douglas Sirk. Matarazzo sapeva perfettamente cosa fosse il cinema, ed era maestro incontrastato nella messa a punto delle alchimie che il cinema richiede. Primo passo: riconoscere l’esistenza di un sogno collettivo che dà un nome e un corpo a desideri senza nome e senza corpo innescati reattivamente da determinate impasse sociali. Secondo passo: riconoscere che una soluzione immaginaria a queste realissime impasse sociali è il primo passo per appropriarsi in prima persona, dando loro una formulazione cosciente, di quei desideri cui si dà inconsciamente forma attraverso il sogno. Terzo passo: entrare letteralmente in questo sogno e articolarlo in modo tale che si riesca a far sognare gli spettatori facendogli capire, allo stesso tempo, che stanno sognando.
Alla fine degli anni Quaranta e all’inizio dei Cinquanta, di magagne sociali in Italia c’era naturalmente l’imbarazzo della scelta, tra l’abissale povertà incertamente mitigata dalle prime parvenze di crescita ma ancora attanagliata dalle ambigue malie dell’economia sommersa e informale, una struttura famigliare ancora fortemente patriarcale, ovvero fondata sull’identificazione tra la donna e il “punto cieco” verso cui tutto ciò che non andava non poteva non convergere, e quant’altro. Con i suoi meccanici dall’allure hollywoodiana e dal cuore d’oro, con la sua America e soprattutto con i suoi figli in nome dei quali ogni sacrificio è auspicabile, Catene è una magistrale condensazione-e-spostamento (in senso freudiano) di tutte queste contraddizioni sociali in uno scenario immaginario in cui esse si trovino utopicamente composte e risolte.
Sagacemente, C’è ancora domani prende i meccanici, l’America, i figli e tutto il resto di Catene, e ne fa una specie di anagramma. Lo rigira come un calzino, e lo rivolta come un guanto. Ovviamente, i tempi sono cambiati. Soprattutto, nessuno sogna più. Delia, la protagonista, un sogno di emancipazione proiettato sulla figlia ce l’ha (il matrimonio col figlio dei burini arricchiti), ma in breve tempo fa abiura del suo sognare, sposa il momento storico (successivo di alcuni decenni) in seguito a cui l’Italia ha definitivamente smesso di sognare (il terrorismo: e non dimentichiamo che sono gli americani a rendere possibile il piano di Delia di mettere una bomba dentro al bar del futuro genero), e si adagia sull’ideologia iperqualunquista che, a giudicare dai commenti e dalle recensioni uscite in seguito al film, piace tanto agli spettatori italiani del 2023: il sogno è male, e soprattutto è male il sogno di qualche ascesa sociale, dunque bisogna stare lì, stringere i denti, continuare a subire in silenzio, fare finta che tutto sia normale perché tanto (vedi il suffragio universale del finale) ci pensa la Storia, fuori di noi, a fare il suo corso, che è per definizione verso il meglio. L’unico ostacolo, infatti, dell’appuntamento finale tra Delia e la Storia, appuntamento che Delia peraltro non fa nulla per agevolare, è il nonno, incarnazione (con le sue simpatie fasciste neanche tanto represse) del rimosso della Storia che ritorna. Ma appunto: il nonno muore di morte naturale. Nessuna azione è richiesta: solo passività (o tuttalpiù, come nel caso della bomba, azione contro qualunque sogno di emancipazione). E appena dopo questa morte naturale, magicamente, il figlio (e cioè il marito di Delia) diventa buono e non mena più la moglie.
Se il film credesse a questa prospettiva come miriadi di spettatori benintenzionati sembrano, incredibilmente e ostinatamente, determinati a crederci, sarebbe il film più brutto, qualunquista e abietto del mondo. Sarebbe un film che dice al pubblico: abbandonate ogni speranza di ascesa sociale e abbiate fede nella Storia perché il progresso arriva automaticamente senza che voi sviluppiate la minima forma di coscienza. E anzi, l’unica coscienza che concede è quella per cui il passato è solo la mancanza di ciò che noi siamo fortunati di avere (tipo l’emancipazione femminile) e ce l’abbiamo perché, lasciando fare alla Storia, alla fine tutto si aggiusta. Verosimilmente, e in maniera assai deprimente, è proprio questo che pensa la maggior parte degli spettatori italiani, i quali, a differenza della generazione dei nostri nonni (che a vedere Catene ci andavano), conosceranno un lungo, inesorabile regresso socio-economico (peraltro già galoppante da almeno una dozzina di anni) proprio perché non sognano più e lasceranno fare passivamente alla Storia con una cieca fede verso un progresso che arriverebbe da solo e automaticamente, fede che la Storia stessa ha insegnato essere sempre, puntualmente mal riposta.
A guardarlo bene, però, il film non coincide affatto con questa prospettiva, a prescindere dall’accanimento con cui la maggior parte degli spettatori si sta accecando al riguardo. C’è ancora domani fa di tutto per annullare qualunque sostanzialità alla Storia e alla presunta inevitabilità del suo scorrere verso il progresso. In un film che si agghinda di neorealismo, derealizza la dimensione fondante della Storia, ovvero il conflitto, facendo della violenza domestica un balletto consensuale, e dunque preparando la strada al musical con cui il film si chiuderà, e che marchia la conquista del voto con quel marchio di irrealtà con cui non possiamo non guardarlo noi nel 2023, epoca in cui al potenziale emancipativo del voto non crede più nessuno. Più di una volta, il film flirta con l’idea del rimosso della Storia che ritorna, ma ogni volta (p.es. nella sequenza del pranzo di famiglia, o del funerale del nonno), questo rimosso viene derealizzato dall’evidentissima orchestrazione della suspense, orchestrazione evidentemente di nessun spessore che non sia meramente retorico.
Insomma: nel momento stesso in cui il finge di dirci di stare lì, cornuti e mazziati non meno di Delia in una società in piena regressione, senza alcun sogno di emancipazione sociale e con una cieca fede verso un Progresso e una Storia che procederebbero in automatico, C’è ancora domani ci mostra come la Storia come automatismo non esista se non come illusione tenuta in piedi da mezzucci retorici che nulla fa per nascondere. Anzi sottolinea esplicitamente come nessuno sogna “più forte” di quelli che sostituiscono a qualunque sogno la fede in una Storia che procederebbe in senso automaticamente progressivo. Della Storia, dunque, non rimane che il nostro desiderio, il quale non è che, come ai tempi di Catene, reazione alle impasse che non riusciamo a risolvere. Per esempio la contraddizione fondante del nostro ethos nazionale, e fulcro del personaggio di Delia: anima anarco-nichilista da un lato, ultraistituzionale dall’altro. La questione non è tanto il superamento del patriarcato, superamento già in atto dopo la guerra nel proletariato (vedere la coppia di venditori al mercato) benché, come in Catene, il proletariato sia perennemente e strutturalmente minacciato dall’ombra del sottoproletariato (cui appartiene appunto la famiglia di Delia coi maschi tombaroli abusivi). La questione è che, sbattendoci in faccia l’illusorietà di una Storia come processo automatico da assecondare passivamente, il film ci sbatte in faccia quanto la contraddizione tra le nostre anime anarco-nichilista e ultraistituzionale sia, quella sì, ancora in attesa di risoluzione. E non sarà certo la Storia a dirci come risolverla né tantomeno a risolverla automaticamente: dovremo pensarci noi.