Drammatico, Recensione, Storico

CATTIVE ACQUE

Titolo OriginaleDark Waters
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2019
Durata126'
Trattodall'articolo del New York Times The Lawyer Who Became DuPont's Worst Nightmare di Nathaniel Rich
Fotografia
Scenografia

TRAMA

La storia vera dell’impegno civile di Rob Bilott, avvocato di Cincinnati che da paladino dell’industria della chimica si scopre loro accusatore in una crociata ventennale.

RECENSIONI

Si intitola The Devil We Know il documentario che Stephanie Soechtig dedica all'affaire Teflon/DuPont, presentato al Sundance Film Festival del 2018: "il diavolo che conosciamo", a dispetto dell'oscuro acronimo, è il PFOA-C8, il materiale brevettato nel corso della Seconda guerra mondiale e poi adoperato su larga scala per la produzione d'oggetti di comunissimo uso, a partire dalle padelle antiaderenti entrate nelle case statunitensi e non con il Boom economico. Un «brillante simbolo dell'ingegno americano» nello slogan del colosso DuPont, che per produrlo avvelena le acque della cittadina di Parkersburg in West Virginia, dove ha sede lo stabilimento preposto, riversandovi tonnellate di residui tossici. Studi ad hoc denunciano presto la pericolosità del composto; a condurli, ça va sans dire, è DuPont medesima, che si guarda bene dal renderli pubblici. Ma si sa che il diavolo fa le pentole e non i coperchi, e così la verità viene a galla - letteralmente - per iniziativa di un avvocato, Robert Bilott, impegnato dal 1998 al 2005 in una lotta estenuante contro la grande azienda. Dall'articolo del "New York Times" incentrato sulle sue gesta (The Lawyer Who Became DuPont's Worst Nightmare di Nathaniel Rich) prende le mosse l'inchiesta misuratissima di Todd Haynes, co-prodotta e interpretata - ancora con Partecipant Media, dopo Il caso Spotlight - da Mark Ruffalo, divo assennato dell'impegno e delle oneste battaglie che nel progetto mette anima & corpo, con la dedizione che anima i giusti. Dal primo incontro tra Bilott e l'allevatore della West Virginia a cui le mucche impazziscono, si ammalano e muoiono dopo essersi abbeverate alle cattive acque di Parkersburg fino al sudatissimo epilogo, con la condanna della DuPont in tribunale, la dimensione è quella del cinema civile al tempo dell'ambientalismo, animato di militanza e di sdegno, a cui guarda l'America nel ripensare se stessa per elaborare il proprio sofferto mea culpa attraverso le piccole grandi storie di singoli individui in lotta eroica contro il sistema. Assecondando in apparenza cliché e svolte obbligate, Haynes lascia aperto uno spiraglio su riscritture e contaminazioni: le didascalie marcano puntualmente il trascorrere naturale del tempo ma finiscono, paradossalmente, per dilatarlo, registrando l'accumularsi delle frustrazioni e l'incistarsi dell'ossessione che sfocia nella paranoia; e, intanto, nell'accumulo delle immagini più polverose depositate nella memoria - clamorose inversioni a U dell'automobile, pile di scartoffie che colonizzano le scrivanie-, fanno capolino altre immagini, che guardano all'horror per suggerire la pervasività del veleno - le mutazioni genetiche subite dagli animali, lo sguardo impazzito della mucca rabbiosa in procinto di caricare il protagonista, come nell'incipit di un eco-vengeance suggerito con discrezione. Un film limpido, che riesce a spostare equilibri pur senza fare troppo baccano: quelli della DuPont, per esempio, che sul finire dello scorso anno, in concomitanza con l'uscita di Cattive acque nelle sale americane, ha assisito al ribassarsi ulteriore, in Borsa, del valore delle proprie azioni.