TRAMA
1613, William Shakespeare è al culmine della gloria quando un tragico incendio distrugge completamente il suo teatro. Tornato nella natia Stratford, il bardo deve affrontare alcuni fantasmi del passato ed una famiglia trascurata.
RECENSIONI
CASA SHAKESPEARE/ CASA BRANAGH
Tutto comincia nel 1904, ad opera di Sir Herbert Beerbohm Tree oppure molti anni dopo, a Belfast, dove Kenneth Charles Branagh nasce il 10 dicembre 1960, secondo di tre figli, in una famiglia protestante della working class irlandese. Ma un passo indietro è d’obbligo, poiché la Storia che diventa storia e poi di nuovo Storia, grazie all’ingegno umano che si tramanda di talento in talento, nasce secoli or sono nell’Inghilterra della Regina vergine e di Giacomo I Stuart, ossessionato dalle streghe. Sono gli anni gloriosi di William Shakespeare senza il quale Branagh non sarebbe Branagh e noi non sapremmo chi siamo. La famiglia dell’attore e regista, nel 1969, si trasferisce nel Berkshire, a Reading - luogo reso celebre dalla ballata carceraria di Oscar Wilde – in cerca di migliori opportunità lavorative. I figli, ovviamente, al seguito, con il giovanissimo Kenneth che, in uno sforzo tenero e audace insieme, tipico del bambino in cerca di integrazione, modifica il proprio accento in base alle occasioni: a scuola scandisce l’inglese limpido della City, in casa, il rassicurante e familiare irlandese. Lo confessa lui stesso a Noreen Taylor, giornalista del Times e madre di Natasha McElhone, attrice per Branagh, in Pene d’amor perdute:
«I feel Irish. I don’t think you can take Belfast out of the boy. I came from the kind of street where everyone knew everyone else. Surrounded by dozens of cousins and friends, it was like living with a large extended family. Maybe that’s why I was drawn to the theatre, as another way of belonging to a large family. Then we had to leave Belfast and maybe that’s what sowed the seeds of discord. I was nine and I remember quickly adopting an English accent for school, while keeping the Irish one for home. Being Irish, I’d always had this love of words, although I hadn’t a clue how to become an actor. Working class families tend not to be too in touch with such worlds. It was a teacher in the sixth form who told me, after I’d joined the drama society, that I had something and suggested I might try for drama school [1]. (Mi sento irlandese. Non credo che tu possa spingere Belfast fuori da qualcuno. Sono venuto dal tipo di strada dove tutti conoscevano tutti gli altri. Circondato da dozzine di cugini e amici, era come vivere con una grande famiglia allargata. Forse è per questo che sono stato attratto dal teatro, come un altro modo di appartenere a una grande famiglia. Poi abbiamo dovuto lasciare Belfast e forse è questo che ha gettato i semi della discordia. Avevo nove anni e ricordo di aver adottato rapidamente un accento inglese per la scuola, mantenendo quello irlandese per quando mi trovavo a casa. Essendo irlandese, avevo sempre avuto questo amore per le parole, anche se non avevo idea di come diventare un attore. Le famiglie della classe operaia tendono a non essere troppo in contatto con questi ambienti. Fu un insegnante del sesto anno, che mi disse, dopo che mi ero unito al gruppo teatrale, che possedevo un qualcosa e suggerì che avrei potuto provare con la scuola di recitazione.)»
La vera e propria folgorazione - lo ricorda con affetto Sir Derek Jacobi durante la cerimonia di consegna del Golden Quill Award a Kenneth Branagh, il più giovane interprete a ricevere tale riconoscimento - fu durante la primavera del 1977, al New Theatre of Oxford, in un periodo nel quale il fulvo di Belfast non aveva ancora deciso se diventare giornalista o calciatore (è un fervido tifoso del Tottenham)… o magari attore. L’Amleto di Jacobi ne segnò il destino professionale (e non solo). E Accademia d’Arte Drammatica fu, non un’accademia qualunque, naturalmente, bensì la Royal Academy of Dramatic Art, ovvero una delle più prestigiose istituzioni teatrali del mondo, fondata nel 1904, proprio da quel tale Sir Herbert Beerbohm Tree citato all’inizio. Dotato, dotatissimo, benedetto (il gioco di parole col protagonista di Much Ado About Nothing è tale solo nella nostra lingua!) dal dono di un talento non meno che cristallino, Kenneth Branagh impressiona gli astanti fin dalle prime esibizioni. L’attore, però, ricorda divertito le reazioni di Hugh Crutwell, all’epoca direttore della RADA, in seguito suo collaboratore assiduo, alla vista di un Amleto giovanile. Suonano, a orecchi profani, come una sequela interminabile di “no”! Più magnanimo, un monumento davanti al quale Branagh confessa di aver sentito la classica tremarella alle ginocchia, Sir John Gielgud – secondo Harold Bloom, il miglior Amleto che si sia mai visto sulla scena, a sua memoria – che si limitò a dargli qualche consiglio su una performance non proprio brillante e a constatare come il discepolo fosse rapido nel recepire i suggerimenti. Gielgud ci tramanda un Branagh recettivo, umile, disposto a mettersi in gioco, tutto il contrario di ciò che suggerisce la pretestuosa accusa di megalomania, che prende origine dalla pubblicazione di una sorta di memoir realizzato in giovane età, solo per contribuire alle spese dei propri progetti. Non sarà stato invece proprio il precoce talento del giovane nordirlandese ad avere, ai tempi, solleticato la suscettibilità dei commentatori? E poi si sa, alcune dicerie si autoalimentano, fino a diventare più vere del vero. In parte è anche il tema di Casa Shakespeare, film che gioca su un fraintendimento di fondo: cercare la verità, intesa come verità fattuale, praticamente incontestabile, nell’arte. Comunque sia, si capirono (quasi) subito, Sir John e Kenneth, che del primo fa una imitazione più vera del vero, tanto da voler lavorare insieme nel cortometraggio Swan Song (1992), da Anton Cechov, diretto da Branagh e interpretato da Gielgud insieme a un altro veterano della scena britannica, Richard Briers, di lì a poco saggio Leonato in Molto rumore per nulla (1993).
Ancor prima di concludere la formazione accademica - Branagh si diploma nel 1981 - sperimenta la faticaccia del doppio lavoro: in teatro come Principe di Danimarca e alla BBC, nel dramma di Graham Reid, Too Late to Talk to Billy, girato nella natia Belfast. Ma è con il ruolo di Judd in Another Country – per il quale riceve il Society of West End Theatres’ Award come miglior nuova promessa del teatro inglese e il Plays and Players’ Award come miglior attore emergente – che la carriera di Branagh decolla in modo perentorio e definitivo.
Se lo ricorda bene Sir Ian McKellen, colpito dal talento di quel giovanissimo interprete, lanciato verso un successo che ha conosciuto alti e bassi, ovvio, ma soprattutto un singolare (e per chi scrive, incomprensibile) ostracismo critico, a ogni svolta appena meno calibrata oppure dissonante rispetto a un percorso che si voleva segnato:
«When I first saw Kenneth Branagh on stage in Another Country he looked about 13. His acting was hugely impressive but I thought it might just be a fluke. He wouldn’t be the first young actor to triumph in a tailor-made part. My generation cling to memories of their own apprentice years in repertory theatre where we painfully learnt the craft. I, for one, was loathe to accept that some actors don’t need a period of apprenticeship and self-discovery, yet Kenneth seemed to spring from the cradle, or at least from drama school, fully-formed, his prodigious technique and imagination already synchronised and ready for anything [2]. (Quando ho visto Kenneth Branagh per la prima volta sul palco di Another Country, dimostrava circa tredici anni. La sua recitazione era davvero impressionante, ma ho pensato che potesse essere solo un colpo di fortuna. Non sarebbe stato il primo giovane attore a trionfare in una parte costruita su misura. La mia generazione si aggrappa ai ricordi dei propri anni di apprendistato nel teatro di repertorio, dove abbiamo dolorosamente imparato il mestiere. Io, per esempio, non riuscivo a sopportare che alcuni attori non avessero bisogno di un periodo di apprendistato e lavoro su se stessi, eppure Kenneth sembrava uscire dalla culla, o almeno dalla scuola d’arte drammatica, completamente formato, la sua prodigiosa tecnica e immaginazione già sincronizzate e pronte a tutto).»
Ed è proprio la presenza di McKellen, in quella che è probabilmente la scena più riuscita e toccante di All Is True, a determinare uno dei possibili significati di un’operazione che prende avvio da una dissolvenza (quella sul noto Chandos Portrait e, non per esempio, sull’incisione Droeshout, presente sul First Folio), che dal fuoco porta alla terra, all’acqua, all’aria e infine ancora al più solido dei quattro elementi. Perché Branagh sceglie la concretezza del Globe in fiamme – a causa di un incidente durante la rappresentazione di un dramma storico shakespeariano –, sceglie l’onestà (quella intellettuale, ma anche quella dell’innamorato), non certo la verità. Lo pone quasi come monito per gli spettatori: «siate onesto con voi stesso e tutto ciò che scriverete sarà la verità». E incalza: «la verità non deve interferire in una bella storia.» In fondo è proprio ciò che ispirava la penna del Bardo, capace di attingere da mille fonti diverse e poi riplasmarle secondo l’onestà propria del poeta, non quella tipica dello storico. Di sicuro sappiamo che Riccardo III era onesto nel suo proposito di agguantare il trono, costi quel che costi; sappiamo anche che l’ultimo sovrano della casata York non ebbe né tanto acume né tanta furia, e che è stato Shakespeare a rendere immortale il susseguirsi frenetico delle sue stagioni. Lo ha fatto così bene che oggi è pressoché impossibile propendere per la verità storica: nel nostro immaginario risuona tutto l’odio e la sete di rivalsa di colui che si ritiene in credito col destino, «cheated of feature by dissembling nature, deformed, unfinish’d, sent before my time into this breathing world».
E dunque è doveroso sgombrare il campo da qualunque illazione: Branagh non crede di essere Shakespeare reincarnato. Non si sente Shakespeare a tal punto da decidere di raccontare la fine della vita del drammaturgo di Stratford, infarcendo la narrazione di avvenimenti improbabili, di commistioni tra vita e scrittura, di confessioni bellissime, magari poco verosimili, in quei contesti e in quei termini. Si sente così poco Shakespeare che sceglie in quella che è, come accennavo, forse la scena più incisiva di All Is True, di donare se stesso, la sua arte, o meglio, l’arte del personaggio che interpreta (aiutato da dei posticci che non ne alterano troppo l’espressività), a quello che viene considerato il più grande interprete shakespeariano vivente, Sir Ian McKellen. L’apparizione di McKellen è fugace, quasi fantasmatica, pensata a beneficio del passaggio di consegne. Così Henry Wriothesley, terzo conte di Southampton, di una decina d’anni più giovane di Shakespeare (questo se ci si aggrappa alla verità), diviene non solo il possibile destinatario dei Sonetti, scritti con finalità presumibilmente politiche, per farsi benvolere nell’alta società londinese, ma anche il profondo depositario di quella sublime poesia.
«Quando inviso alla fortuna e agli uomini, in solitudine piango il mio reietto stato ed ossessiono il sordo cielo con futili lamenti e valuto me stesso e maledico il mio destino…» ecc., recita Branagh (sto usando la traduzione di shakespeareitalia.com). Poco dopo replica McKellen, con gli stessi versi del Sonetto 29, mandati a memoria, prima del definitivo commiato: una dichiarazione d’amore – un amore che non avrebbe osato, parafrasando Wilde, pronunciare il proprio nome – fra i due uomini, ma anche una dichiarazione d’amore eterno alla grandezza di chi quei potenti versi li ha vergati.
Poco importa, anzi, importa moltissimo, ma non in senso dispregiativo, che il regista e attore di Belfast abbia omesso di raccontare che Richard Quiney, il padre dell’edonista futuro marito della secondogenita, Judith, avesse chiesto a Shakespeare un più che discreto prestito (lo strozzinaggio peraltro non era reato e veniva anzi praticato con disinvoltura), per l’ammontare di trenta sterline [3].
Per la stessa ragione non deve suonare né strano né oltraggioso il parallelismo esplicito tra il figlio Hamnet, morto a soli undici anni per cause mai chiarite – la mortalità infantile dell’epoca era tale che non c’è da intestardirsi su chissà quale mistero – e Ofelia. Branagh intreccia soprattutto in questo struggimento paterno l’arte drammatica con la vita: «E avrà sepoltura cristiana, una che di proposito attenta alla propria morte?/ Ti dico di sì, per cui scava la fossa e spicciati. Il giudice ha fatto seduta su lei e trova sepoltura cristiana./ Ma come può essere, a meno che non s’è affogata per legittima difesa?»
Siamo ancora nell’ambito di un’onesta menzogna: gli anni che vanno dalla nascita di Hamnet e Judith (1585) al 1592, momento in cui con ragionevole certezza Shakespeare si trova a Londra, sono chiamati dagli studiosi lost years. Anni perduti dei quali non sappiamo nulla e che in Branagh instillano forse la suggestione creativa di un affetto trascurato, di un imprinting impossibile. Per questo, nonostante James Joyce sostenga che Amleto sia il figlio ideale di Shakespeare come Hal lo è di Falstaff [4], il richiamo va alla bella Ofelia. Come lei, Hamnet, secondo la versione di All Is True, si è affogato per legittima difesa. La colpa percepita? Quella di non poter eguagliare il talento del padre, tanto più che sarebbe stata la sorella, in un’epoca in cui alle donne non era permesso neppure recitare nei ruoli femminili, a immaginare i versi che la penna del bambino poi trascriveva. Ma non vi è colpa, se la difesa è legittima. Ed ecco, chiaro, il tema dell’ambiguità, dell’ambivalenza, del gioco costante tra verità e simulazione funzionale (a una sepoltura cristiana come all’elaborazione di un lutto), anche di questo lavoro: «And, mermaid-like, awhile they bore her up: which time she chanted snatches of old tunes; as one incapable of her own distress.»
E Judith pure, secondo un processo di specularità gemellare, è Ofelia, una Ofelia che, ripensando alla versione cinematografica di Hamlet, firmata da Branagh, è riuscita a trovare un proprio, piccolo spazio di autoaffermazione; non così per la primogenita, Susanna, sposata senza troppo ardore con un medico puritano, John Hall. Per lei la sola finzione filmica non è sufficiente: serve una bugia di secondo (o terzo) livello, ottenuta grazie a un simpatico siparietto del drammaturgo sul suo Tito Andronico.
Il medesimo Shakespeare, sulla cui morte gira più di una teoria, dalla malaria a una specie di febbre post-sbronza, ci viene presentato infine come affetto da una qualche patologia respiratoria, in seguito una nottata all’addiaccio e dopo una visione, quella di Hamnet che finalmente può chiudere i conti col padre, può esentarlo dalle invisibili colpe, con la saggezza di Prospero. È Shakespeare che, in un certo modo, chiude i conti con se stesso, con la consorte a lungo trascurata, con l’arte che ha stizzito Robert Greene (lo si cita, con la sua sprezzante definizione del Bardo come scuoti-scena, un «upstart crow, beautified with our feathers») e affascinato l’amico Ben Jonson, al quale si deve una delle più illuminanti intuizioni su William Shakespeare: «he was not for an age, but for all time.»
Siamo davvero nell’ambito della volontaria trasgressione, dell’anacronismo spinto, del falso dichiarato. Se la verità dei fatti pretende una sola faccia, la bugia si biforca, e ancora e ancora, fino a illuminare sentieri altrimenti imperscrutabili: T for Fake.
Partendo da un presupposto simile, postulava Peter Brook nel suo Avec Shakespeare: «Dimentica Shakespeare. Dimentica che ci sia mai stato un uomo con questo nome […] Pensa solo che la tua responsabilità, in quanto attore, è quella di dar vita a degli esseri umani.» [5]
Non potendo avere l’ardire di trovare realmente l’immensità di Shakespeare, l’unica scelta che possiamo fare, e che ritengo che Branagh abbia fatto, è quella di dimenticarlo, in altre parole, di re-inventarlo.
[1] Noreen Taylor, An Interview with Kenneth Branagh, «The Times», 15 March 2000, pp. 6-7.
[2] I vari interventi sono reperibili qui
[3] Rocco Coronato ha scritto per Carocci un sintetico, ma molto interessante saggio su Shakespeare, che muove da ciò che si conosce della vita del Bardo – non così poco, come molti ritengono – fino alle caratteristiche salienti delle sue opere. Si intitola Leggere Shakespeare, 2018.
[4] Riportato in H. Bloom, Shakespeare. L’invenzione dell’uomo, trad. R. Zuppet, Segrate, BUR, 2003
[5] P. Brook, Dimenticare Shakespeare?, trad. L. Tinghi, S. Diaz, Napoli, Alfredo Guida Editore, 2005