Cartoline dal Cleveland International Film Festival 2016

Giunto alla 40ma edizione, il Cleveland International Film Festival si conferma uno degli appuntamenti più attesi da una città in cui la diffusione della cultura cinematografica durante l’anno si poggia principalmente sugli sforzi erculei della Cleveland Institute of Art Cinematheque. La programmazione di quest’ultima è incentrata su una miscela sapientemente dosata dal fondatore e curatore John Ewing, e composta da film di repertorio e cinema indipendente, eventi speciali e retrospettive. Ad integrare il lavoro della cineteca c’è la catena Cleveland Cinemas (link), che gestisce una decina di schermi sul territorio su cui vengono proiettati, insieme ai prodotti di colossi come Disney e Marvel facilmente reperibili nei multiplex sia centrali che periferici, anche alcuni film internazionali e documentari di interesse sociale. Ecco quindi che il CIFF arriva annualmente a soddisfare un appetito che il pubblico coltiva per svariati mesi, attendendo pazientemente che Cannes, Venezia, Toronto, e Berlino filtrino quanto c’è di meglio nel panorama internazionale e lo restituiscano a festival minori il cui profilo è più incentrato sulle esigenze della popolazione locale e meno su quelle degli addetti ai lavori.
La prima kermesse risale al 1977, quando F For Fake di Orson Welles (1973) apre un programma di solo sette pellicole spalmato dal 13 aprile al 2 giugno al ritmo di due proiezioni a settimana, che si concludono proprio con gli italici toni nostalgici di Amici miei (Mario Monicelli, 1975), coincidenza che si ripete l’anno successivo quando il film di chiusura è C’eravamo tanto amati del compianto Ettore Scola (1974). Da allora il festival è cresciuto esponenzialmente, arrivando quest’anno a proiettare 192 lungometraggi e 213 cortometraggi da ben 72 paesi, conferendo sostanziosi premi monetari e creando specifiche Sidebar che evidenziano l’interesse della programmazione per minoranze etniche, tematiche LGBTQ, e aree geografiche meno rappresentate. La centralizzazione delle proiezioni avviene nel 1991, quando il festival si sposta dal Cedar Lee Theatre (multisala dislocato ad est della città) al centralissimo complesso di edifici che compongono Tower City, la cui svettante Terminal Tower funge da segno urbano del passato illustre della città. Ironicamente, numerose produzioni cinematografiche hanno impiegato Tower City per significare altri luoghi: in Avengers (Joss Whedon, 2012) l’adiacente Public Square diventa Stoccarda, mentre in Spider-Man 3 (Sam Raimi, 2007), la torre viene incongruamente a far parte dello skyline di New York. Protetti dalle volte a botte dorate dei lunghi corridoi e passaggi che collegano i vari edifici del centro, e avvolti dai lucidissimi marmi che decorano pavimenti e pareti si trovano gli schermi dei Tower City Cinemas, parte della scuderia di teatri gestita appunto da Cleveland Cinemas.

Insieme al collega e amico Brian Doan, che con scrittura sicura ed elegante documenta le nostre avventure dal suo blog Bubblegum Aesthetics (link), ho ottenuto un accredito per il festival. Non contemplando proiezioni separate per la stampa, l’organizzazione offre la possibilità ai giornalisti di frequentare fino a sei eventi per il pubblico, soluzione piacevolmente democratica che raccoglie energie diverse e stimola riflessioni che si estendono non solo alle pellicole visionate, ma all’esperienza cinefila tout-court, popcorn e bibite incluse.

Il primo film del mio festival è stato Paulina (La patota, 2015) dell’argentino Santiago Mitre, che ritorna a dirigere un lungometraggio dopo la prova largamente positiva di El Estudiante (2011). Figlia di un giudice, Paulina (Dolores Fonzi) abbandona le certezze offertole dalla posizione del padre e dagli studi in legge per andare a insegnare in una regione rurale del paese. Nonostante la sua ferrea volontà di mettere i propri talenti al servizio dei meno fortunati, la donna incontra problemi dentro e fuori l’aula, fatto che evidenzia non solo la sua distanza intellettuale dai suoi alunni, ma soprattutto quella socioeconomica. Il destino si accanisce crudelmente sulla protagonista quando una banda di uomini del luogo le tende un agguato sulla via di casa e la violenta. A questo punto la giovane si lancia in quella che il padre definisce “una crociata messianica e incomprensibile”, rifiutando l’aiuto delle forze dell’ordine e ridefinendo stoicamente il suo ruolo di vittima. Mitre investiga il trauma della sua eroina appoggiandosi su due modelli illustri: da un lato il lavoro umanistico dei fratelli Darnenne, di cui l’argentino eredita l’uso di macchina a mano (incollata al volto di Fonzi), i piani sequenza (notevole è la scena che apre il film), e soprattutto le proporzioni dell’indagine, che si concentrano su una vicenda personale per definire questioni di carattere universale. Dall’altro lato il film evoca la struttura di Rashomon (Akira Kurosawa, 1950), balzando da personaggio a personaggio (pur mantenendo Paulina al centro della vicenda) e fornendo punti di vista differenti della stessa storia. Interessante è l’uso che ne fa Mitre, il quale non si preoccupa di capire dove stia la verità, ma piuttosto di analizzare come condizioni socioeconomiche ed istruzione (che si sovrappongono nel film a nozioni di razzismo e di classismo) contribuiscano all’interpretazione dello stesso evento: per Mitre, dimostrare l’imperscrutabilità del “perché” diventa più importante del sapere “cosa” o del raccontare “come”. La crociata di Paulina è il dato di una società che fatica a guardarsi allo specchio per paura di scoprire la corruzione e la disuguaglianza che si agitano sotto la superficie della presunta legalità.

Anche l’irlandese Traders (Rachael Moriarty, Peter Murphy, 2015) non si discosta di molto dai propri modelli stilistici e narrativi, che trova nei primi film di Danny Boyle  (Piccoli omicidi tra amici e Trainspotting) e di David Fincher (The game, Fight Club e Panic Room), ma che riesce a sintetizzare con grazia e una discreta levità. La crisi economica lascia due giovani bancari sull’orlo del lastrico, costringendoli a trovare soluzioni creative alla disoccupazione. La mente imprenditoriale di Vernon (John Bradley) concepisce un gioco mortale che capitalizza sull’alta incidenza di suicidi causati dall’andamento dei mercati. Vista la sua innata propensione al rischio, il collega Harry (Killian Scott) inizia a giocare, accumulando un capitale considerevole che presto attrae attenzioni non desiderate. Nonostante non si tratti di materiale interamente innovativo, Traders mantiene un portamento adeguato e passo svelto, alternando momenti di  comicità che dissipano momentaneamente la brutalità degli scontri. Interessante è anche l’esecuzione della violenza, che non si discosta interamente dall’iperbole, ma che offre parentesi anche sofisticate nel trattamento dei duelli: spesso infatti i contendenti rivelano esitazioni, incertezze, ripensamenti, paure e fragilità, lasciando intravedere tratti intelligentemente umani, anche se occupano lo schermo per pochi minuti prima di cadere vittime della furia omicida e capitalista dell’efficiente Harry.

Diretto dal messicano Michel Franco, Chronic (2015) narra la storia di David (Tim Roth), infermiere specializzato nella cura dei pazienti terminali che non riesce a mantenere la distanza necessaria per sopportare l’enorme carico emotivo della sua professione. La regia di Franco è sorprendentemente paziente, evocando nei piani sequenza il rigore di Michael Haneke (Amour è sicuramente un forte punto di riferimento), ma sostituendo al supposto sadismo del regista tedesco una tensione di matrice Hitchcockiana. L’imperscrutabilità della maschera di Roth, che consegna una performance d’altissimo livello, rende il suo personaggio fragile ma sinistro, affidabile ma distante, forte ma ferito. L’umanità che tra trasuda dai suoi lunghi silenzi e dalle poche parole con cui interviene nelle conversazioni è carica di dolore accumulato non solo dall’attaccamento ai pazienti, che inevitabilmente si trasforma in lutto, ma anche da una tragedia personale che il film svela a dosi minuscole, suggerendola piuttosto che raccontandola. Brutta è la risoluzione finale, che se da un lato sembra essere in linea con l’arco del personaggio, dall’altro è proposta maldestramente, quasi a voler forzare il polso alla vita per dimostrarne l’infinita assurdità delle variazioni che vi risiedono.

Il danese Gold Coast (Guldkysten, 2015) rivisita il colonialismo europeo assumendo il problematico punto di vista del botanico Wulff (Jakob Ofrebro) che si reca nella Guinea Danese nel 1836 (oggi il Ghana) per  stabilire una piantagione di caffè nel nome della monarchia. Inizialmente incantato dalla vegetazione e dal temperamento della popolazione locale, ben presto l’idealismo dello scienziato di confronta con l’orribile realtà della schiavitù, che benché ufficialmente abolita dalla Danimarca nel 1803, continua ad essere praticata dai suoi colleghi. I modelli di riferimento qui sono The Mission (Roland Joffé, 1986) e Lezioni di piano ( The Piano, Jane Campion, 1993), che l’esordiente Daniel Dencik evoca direttamente in più occasioni. La regia impressionistica ricorda da lontano anche l’atteggiamento verso il mondo naturale di Terence Malick, ma soprattutto sottolinea i limiti del punto di vista interno, che si traduce purtroppo anche in una caratterizzazione piuttosto bidimensionale dei personaggi. Ingannato dalla sua fiducia nei valori della scienza e della civiltà europea, il protagonista si disintegra di fronte all’inefficacia delle proprie azioni, soffrendo una sconfitta non solo morale, ma soprattutto fisica, letteralmente appassendo di fronte alla brutalità della condizione umana. Wolff affronta ingenuamente le avversità, attraversando la pellicola con una logica lineare che non rispecchia la traiettoria intricata delle vicende coloniali, risultando nella fabbricazione di un calvario quasi auspicato dal protagonista stesso, che si propone in ultimo luogo come martire dello scontro fra civiltà. Spettacolare a livello dell’immagine, Gold Coast scricchiola drammaturgicamente sotto il peso delle proprie ambizioni, nonostante la notevole prestazione di Oftebro, che nella sua dedizione all’intensità fisica del ruolo rievoca il Michael Fassbender di Hunger (Steve McQueen, 2008).

Returning Home (A vende tilbake, 2015) è il primo lungometraggio del norvegese Henrik Martin Dahlsbakken, che durante la discussione a seguire la proiezione ha sottolineato gli aspetti vagamente autobiografici della pellicola. La storia tratta del rientro a casa di un veterano della guerra in Afghanistan e dell’accoglienza che gli riserva la famiglia. Incapace di acclimatarsi alla vita civile, l’uomo esce per una solitaria battuta di caccia, lasciando i figli e la moglie malata ad interrogarsi sul significato delle sue azioni. Presto i due ragazzi si mettono sulle tracce del padre, nel tentativo di riportarlo a casa definitivamente. Immersa nello strabiliante panorama nordico, la vicenda si dipana lentamente, incentrandosi principalmente sul rapporto fra i due fratelli e sulla loro traiettoria umana, usando i luoghi come evidente metafora del loro paesaggio interiore. Interessato ai più ineffabili dei sentimenti è anche il documentario sperimentale Notes on Blindness (2016), scritto e diretto a quattro mani da Pete Middleton e James Spinney, che ricostruisce la discesa nella cecità del teologo John Hull. Per rimanere connesso alla disciplina, Hull assolda una tribù di volontari che iniziano a registrarsi su audiocassette mentre leggono testi accademici. In questo modo gli viene l’idea di tenere un diario vocale delle sue esperienze da non vedente, con il quale i registi ricostruiscono alcuni episodi della sua vita, utilizzando attori professionisti per recitarli ma mantenendo le voci originali di Hull e della sua famiglia. Il formato ibrido del film si affida interamente a nozioni singolarmente circolari di percezione, restituendo in forma visiva proprio quelle esperienze tattili e sonore il cui lato ottico è negato al protagonista dalla sua malattia. Questa soluzione può sembrare inizialmente poco adatta allo schermo, vista l’inevitabile duplicazione di informazioni che avviene della narrazione orale e visiva, ma il film la gestisce con delicatezza e sobrietà, concentrandosi su piccoli gesti e momenti intimi. Per il prima volta il CIFF propone anche una sezione interattiva, PERSPECTIVES, che raccoglie esperienze online, realtà virtuale, e un enorme touchscreen che ricostruisce la storia del festival stesso. Notes on Blindness è esteso in questa sezione dall’installazione in realtà virtuale Into Darkness (Arnaud Colinart, Amaury La Burthe, Peter Middleton, James Spinney, 2016), in cui il pubblico può vivere la condizione di quasi totale cecità di Hull, e può capire ancora meglio la sua relazione spaziale e percettiva con il mondo attraverso i suoni. Una volta indossati il visore e le cuffie si è guidati dalla voce del teologo, che descrive l’ambiente che lo circonda decifrando verbalmente il paesaggio auditivo, e il mondo comincia a riapparire attraverso figure di pura luce appena accennate.
Sicuramente Notes on Blindness, almeno dal punto di vista della ambizione narrativa, è stato l’esperienza più toccante e stimolante dei miei giorni al festival, che si riconferma perno centrale dell’anno cinematografico della città e della regione.
Una menzione speciale va ai volontari, specialmente della sezione PERSPECTIVES, che con il loro entusiasmo spingono anche i più titubanti a sperimentare con tecnologie che potrebbero intimidire per il loro impatto emotivo: straziante è infatti Waves of Grace (Chris Milk, Gabo Abora, 2015), documentario a 360 gradi che racconta in pochi minuti la vicenda di Decontee Davis, una donna che sopravvive al virus Ebola e che usa l’immunità acquisita per aiutare gli orfani del suo villaggio in Liberia.