I film più spiazzanti visti al festival sono stati il danese-islandese Vanskabte Land/Volaða Land (Godland) di Hlynur Pálmason, Pacifiction del catalano Albert Serra, il franco-canadese Viking di Stéphane Lafleur e lo svizzero Unrueh (Unrest) di Cyril Schäublin. In un certo senso, tutti questi titoli guardano sgomenti al passato, il presente e il futuro degli sforzi coloniali (militari, politici e/o ideologici) in vari angoli della terra (e forse anche oltre, in un certo senso). Ambientato nell’Islanda del tardo ottocento, e basato su un pugno di reali fotografie su lastre di vetro che documentano la costa sud dell’isola, Godland racconta del difficile percorso del giovane prete danese Lucas (Elliott Crosset Hove), incaricato di recarsi nell’inospitale colonia danese e di prendere le redini di una parrocchia. Per raggiungere il remoto avamposto, Lucas si affida allo smaliziato Ragnar (Ingvar Sigurðsson), guida rozza ma esperta, entrandovi immediatamente in conflitto. Fotografando paesaggi e persone incontrati sul cammino, Lucas fa ampio sfoggio della sua mentalità coloniale, discendendo lentamente in una febbricitante paranoia alimentata dalla sua incapacità di comprendere la lingua del popolo a cui dovrebbe comunicare il verbo divino. Le tensioni verranno alimentate dal clima ostile, fino all’inevitabile scontro. Le premesse di Godland, come questa breve sinossi cerca di comunicare, sono assolutamente straordinarie. Tuttavia, l’esecuzione è a volte stentata e ripetitiva, nonostante alcune sequenze (come quelle più traumatiche riguardanti la decomposizione dei corpi animali e umani) siano assolutamente strabilianti.
Anche il nuovo film di Albert Serra, una delle voci più innovative del panorama europeo, è riuscito solo a metà. Pacifiction si svolge nella Polinesia francese, dove l’untuoso Commissario De Roller (un bravissimo Benoît Magimel) si muove con furbizia fra filibustieri europei e organizzazioni tahitiane, sostenuto dalla fedele Shannah (Pahoa Mahagafanau), mantenendo la pace ma anche tutelando i disequilibri di matrice coloniale. L’arrivo di un equipaggio di marina dalla madre patria risolleva la questione dei controversi test nucleari operati dalla Francia fino agli anni novanta. Di fronte alla minaccia di una nuova mobilitazione militare e disastro ecologico, i tahitiani si radicalizzano, creando un problema diplomatico potenzialmente irrisolvibile anche per De Roller. Sicuramente il film più accessibile di Serra, come afferma egli stesso durante una conferenza stampa particolarmente agguerrita, Pacifiction è anche stranamente sconclusionato, specialmente nel finale incomprensibilmente lynchano. Sia Godland che Pacifiction sono pellicole dalle aspirazioni monumentali, anche se in maniera diversa; entrambi abbondantemente sopra le due ore, si propongono di investigare temi enormi, senza però offrire facili risposte.
Di proporzioni ben più modeste Viking e Unrueh, due dei film più interessanti di questa edizione del festival. Nel primo Stéphane Lafleur immagina che la prima missione su Marte sia accompagnata da un equipaggio gemello a terra che, sottoposto a stimoli identici a quelli vissuti dagli astronauti, aiuti a studiarne il comportamento e a prevenire possibili problemi derivanti dai rapporti interpersonali. La premessa fantascientifica lascia spazio a guizzi di umorismo nero, ma senza perdere di vista l’obiettivo centrale, ovvero l’osservazione di esseri umani normali in circostanze eccezionali. Per questa evidente metafora del cinema stesso, Lafleur si affida alla pellicola 35mm, evitando i vezzi del digitale, e alla faccia sobria e un po’ stanca di Steve Laplante (David), a cui ancora la piccola storia, ottenendo dalla giuria una menzione come migliore film canadese. Molto ben calibrato anche il rigoroso Unrueh, in cui l’anarchico russo Pyotr Kropotkin (Alexei Evstratov) si reca in un villaggio sul Massiccio della Giura per mapparlo, ma presto si appassiona alle vicende politiche delle donne impiegate nell’industria orologiaia locale, dove ideali anarchici e capitalismo taylorista (avant la lettre) coesistono in maniera non sempre pacifica. Lo sviluppo di nuove tecnologie (telegrafo e fotografia) accompagna la quotidianità del lavoro in fabbrica e i rituali del paesino; fra cortei e corteggiamenti, la lotta per i diritti delle lavoratrici si scontra con la tradizione. Qui al secondo lungometraggio, Cyril Schäublin si proietta fra i registi europei da seguire con molta attenzione.