Cartoline da Toronto 2016

Ad eccezione di una manciata di titoli, il mio viaggio nell’edizione 2016 del Toronto International Film Festival è stato all’insegna delle voci e dei punti di vista che vengono storicamente e sistematicamente esclusi o marginalizzati nell’universo dell’arte cinematografica. Accompagnato almeno in parte dagli amici e colleghi Michael Anderson (Director of Curatorial Affairs dell’Oklahoma City Museum of Art) e Matt Singer (Managing Editor del sito Screencrush), questo itinerario tracciato di sala in sala per quasi due settimane si è aperto con una forte delusione, l’attesissimo The Birth of a Nation di Nate Parker, film che ricostruisce la breve ma significativa vita di Nat Turner (1800-1831). Nato in schiavitù in una piantagione in Southampton County, in Virginia, Turner presto rivela le qualità del leader, grazie anche alla sua capacità di leggere e scrivere, attività in quei tempi riservate ai bianchi. Dedito allo studio della sacre scritture, Turner affina le proprie abilità oratorie predicando il verbo, e quando i tempi si fanno maturi si mette alla testa di una sanguinosa ribellione di schiavi durata 48 ore. Nonostante l’argomento trattato sia di grande interesse storico, e dia la possibilità a molti talenti afroamericani di trovare spazi per brillare, la pellicola di Parker è convenzionale nella narrazione e banale nelle scelte stilistiche. Attore di esperienza, Parker si distingue nel ruolo del profeta ribelle Turner, ma il suo lungometraggio sembra aver dimenticato la lezione dell’eccellente 12 Years a Slave, rivelandosi incapace di cogliere l’invito lanciato da Steve McQueen nel 2013 a trattare il tema della schiavitù con soluzioni formali adeguate alla gravità del soggetto.

Diametralmente opposta è la sensibilità di Barry Jenkins, che si era già distinto con la promettente opera d’esordio Medicine for Melancholy nel 2008, in cui la tematica centrale erano le relazioni romantiche interrazziali ed i possibili conflitti con le comunità di appartenenza. Dopo un lungo silenzio Jenkins ritorna con Moonlight, un bildungsroman in tre capitoli che ritrae le vicissitudini di un giovane gay afroamericano a Miami. Straziata da violenza, droga e povertà, la società dipinta da Jenkins è incapace di avere effetti positivi sulla maturazione del protagonista, il quale viene sballottato fra figure paterne inadeguate, una madre tossicodipendente, e un sistema scolastico inefficace e punitivo. Per profondità di osservazione e capacità di rivelare le sfumature di una vita passata a nascondere la propria sessualità (anche a se stessi), Moonlight è un capolavoro del cinema americano contemporaneo. Jenkins dimostra una grande maturità nell’uso della macchina da presa, che si poggia molto sulle soggettive a spalla ereditate dai Dardenne, ma si avventura anche in soluzioni stilistiche originali e talvolta perfino coraggiose. Incredibilmente solida e precisa è anche la scrittura, che dipinge gli ambienti con efficacia e realismo, e soprattutto notevoli sono le prove degli attori, fra cui si distinguono Mahershala Ali (Juan), Ashton Sanders (Chiron nel secondo capitolo), e André Holland (Kevin nel terzo capitolo).
Simile nei temi è anche il bellissimo Heartstone (2016) dell’esordiente Gudmundur Arnar Gudmundsson, che racconta l’amicizia (e forse l’amore) fra due ragazzi islandesi cresciuti troppo distanti dalla capitale per percepirne l’aria progressista e liberale. In particolare, il sospetto che Christian (Blær Hinriksson) possa essere gay rivela la fragilità dei rapporti nella comunità del piccolo villaggio di pescatori e allevatori. Raccontato in modo semplice ma efficace, principalmente usando una macchina a mano incollata ai personaggi, Heartstone esplora momenti di vita delicati e personali con una sensibilità acutissima, servendosi anche del maestoso paesaggio estivo dell’isola di ghiaccio e fuoco. Sami Blood (Sameblod) di Amanda Kernell parla di temi di esclusione e diversità concentrandosi sulla marginalizzazione del popolo Sami, comunità indigena della parte settentrionale di Norvegia, Svezia, e Finlandia. Spronata dalla limitata scolarizzazione messa a disposizione della minoranza Sami dal governo svedese negli anni ’30 (interessante il parallelo con The Birth of a Nation, che in modo molto simile illustra la divisione della letteratura in categorie distinte a seconda della presunta abilità intellettuale del lettore), la protagonista Elle Marja (Lene Cecilia Sparrok) volta le spalle alla propria cultura e si mette alla ricerca della propria identità in Svezia, dove si trova però a fare i conti, sia istituzionalmente che culturalmente, con un razzismo di matrice eugenetica e nativista. Maj-Doris Rimpi, artista e attivista Sami, interpreta con grande intensità una Elle Marja ormai anziana e forse pronta a riconciliarsi con il suo passato. Sulla tematica dell’integrazione forzata delle minoranze (pratica che il governo canadese ha utilizzato in passato nel riguardi delle Prime Nazioni) c’è da segnalare anche We Can’t Make the Same Mistake Twice di Alanis Obomsawin, cronaca di una battaglia legale per ottenere risorse e servizi sociali adeguati per le minoranze etniche indigene del nord america.

Come Amanda Kernell anche lo svizzero Michael Koch sceglie una prospettiva femminile per raccontare la storia di Marija (Margarita Breitkreiz), immigrata ucraina a Dortmund che sbarca il lunario come può, trascinandosi da lavoro a lavoro e sognando di aprire un salone di bellezza tutto suo. Mantenendo le distanze dal punto di vista morale dalla sua protagonista, Koch ci trascina nel mondo sommerso dell’immigrazione clandestina, del lavoro nero, delle scelte difficilissime che accompagnano le vite mobili di milioni di persone. Della condizione sradicata il cineasta coglie perfettamente la sensazione di perenne instabilità, e tratteggia forse anche troppo vivamente i personaggi minori che accompagnano (e anche minacciano) la vicenda della donna.
L’imperfetto ma intelligente Their Finest (diretto dalla veterana danese Lone Scherfig) esamina la condizione femminile nell’industria cinematografica londinese del 1940, adottando anche in questo caso il punto di vista di un outsider, un’ambiziosa scrittrice gallese che deve fare i conti con il sessismo di un mondo temporaneamente votato alla causa nazionale. La pressione dei bombardamenti tedeschi permetterà a Catrin Cole (Gemma Arterton) di trovare spazi professionali prevalentemente preclusi alle donne, e di affermarsi in un mondo fatto di uomini perlopiù imperfetti. Il talento brillante di Bill Nighy (che interpreta il gigioneggiante Ambrose Hilliard) illumina le sue scene con i suoi ritmi comici impeccabili, aiutando a sostenere una pellicola che a volte scivola nel didattico, ma che sicuramente cerca di ampliare il vocabolario del cinema britannico commerciale contemporaneo. Sicuramente meno digeribile e più impegnativo è Lady Macbeth, adattamento cinematografico del romanzo di Nikolai Leskov (già adattato da Andrzej Wajda nel 1962 e da Roman Balayan nel 1989), che rilegge la tragedia shakespeariana in chiave femminile. Diretto da William Oldroyd (qui al suo secondo lungometraggio), Lady Macbeth trasporta la vicenda nell’Inghilterra del diciannovesimo secolo, spingendola in una direzione marcatamente femminista. L’ossessione amorosa, ma principalmente l’irriducibile volontà ad ottenere e conservare la propria indipendenza, viene letta dai personaggi che circondano l’eroina come una forma di instabilità, una nota stonata nell’ordine garantito dalle gerarchie sociali e dalle convenzioni. Molto felice è la scelta di utilizzare un cast multirazziale, cosa che dona ulteriore spessore sociale ad una pellicola che è più interessata al presente che al passato della società inglese.

Si incarica di esplorare gli angoli bui della condizione femminile anche il belga Le ciel flamand, scritto e diretto da Peter Monsaert. La protagonista è Sylvie (Sara Vertongen), una prostituta e imprenditrice che cresce la figlia con l’aiuto della nonna, anch’essa prostituta, e del padre (un eccellente Wim Wallaert), tenendolo tuttavia a distanza. Quando la bimba viene rapita e molestata da uno dei frequentatori del bordello che gestisce, la donna si lancia in una investigazione parallela a quella delle autorità, che si rivelano inefficaci. Nel frattempo, alla legittima rabbia e frustrazione del genitore si sovrappongono le complicazioni professionali e le pressioni sociali che inevitabilmente tornano a galla. Il calvario di Sylvie è replicato in modo simile (almeno per quanto riguarda i temi della prostituzione e della violenza sui minori) nel sanguinolento Brimstone, in cui Guy Pierce interpreta un uomo di chiesa sadico e vendicativo sulle tracce della figlia ribelle (Dakota Fanning). Il West raccontato dall’olandese Martin Koolhoven è brutale e monocorde, e nonostante la bellezza pittorica delle immagini il film si concentra principalmente sulla meticolosa ricostruzione delle efferatezze sofferte dalla protagonista e dai personaggi che la circondano. L’organizzazione in capitoli “biblici” raccontati in ordine inverso tradisce l’impianto profondamente Tarantiniano della pellicola, senza però ereditarne anche la verve e la freschezza di cui il regista americano è stato capace nella sua carriera.
Si propone di essere femminista, pur sbagliando completamente il tiro, anche Walter Hill, che ritorna dietro la macchina da presa dopo Bullet to the Head, collaborazione con Sylvester Stallone risalente al 2012. (Re) Assignment si propone di aggiornare la formula del sicario in cerca di risposte sposandola con il cambiamento (coatto) di sesso del protagonista Frank Kitchen (Michelle Rodriguez). Il film è basato su un impianto formale e strutture narrative che risalgono alla metà degli anni ’80 (periodo d’oro per il cinema d’azione muscolare di Hill), nelle quali vengono iniettate le tematiche LGTBQ contemporanee. Il risultato è una pellicola consciamente fuori dal tempo, che vuole essere simultaneamente autoreferenziale e innovativa, ma che risulta, appunto, stranamente datata. Più espressamente sperimentale è Dog Eat Dog di Paul Schrader, che ritorna a far esplodere il genere dall’interno dopo il controverso The Canyons (il regista e sceneggiatore ha disconosciuto Dying of the Light, la sua precedente collaborazione con Nicholas Cage). Basato sul romanzo di Edward Bunker, il film narra in modo estremamente impressionistico le vicende di un trio di malviventi alle prese con un rapimento a Cleveland, in Ohio. La somma delle parti non si coagula necessariamente in una vicenda con capo e coda, ma è sicuramente ammirabile in quanto testimonianza dello spirito di innovazione che ancora caratterizza il modo di fare cinema del grande autore americano.

 L’enigmatico Kékszakállú, diretto dall’argentino Gastón Solnicki, offre dei rarefatti ritratti di donne sullo sfondo della profonda crisi economica che tormenta il paese sudamericano. La manciata di schizzi si poggia sull’opera di Béla Bartók Il castello di Barbablú (il cui libretto fu firmato dal teorico del cinema Béla Balázs) a sottolineare l’atavicità dei pericoli che affliggono la condizione femminile nel mondo contemporaneo. Altrettanto interessato all’investigazione delle pressioni familiari sulle giovani donne è il bellissimo Le secret de la chambre noire di Kiyoshi Kurosawa, che dopo Journey to the Shore ritorna ad occuparsi del limite fra la vita e la morte utilizzando rispettivamente la botanica e la dagherrotipia come metafore. Bravo, come sempre, Tahar Rahim nel ruolo dell’apprendista che si innamora della bella e misteriosa Marie (Constance Rousseau), figlia del geniale fotografo Stéphane (Olivier Gourmet), vedovo tormentato dal ricordo della moglie. La storia di fantasmi presto si trasforma in una profonda meditazione sulla perdita della persona amata. In questo senso si possono individuare numerose somiglianze con À jamais del maestro Benoît Jacquot, basato sul romanzo di Don De Lillo The Body Artist. Julia Roy interpreta Laura, una performance artist che in seguito al suicidio del marito Jaques Rey (l’impeccabile Mathieu Almaric) si ritrova ad affrontare il proprio lutto in solitudine, forse scivolando lentamente in uno stato mentale instabile. L’apparizione del marito (o la proiezione interiore dello stesso) interviene a complicare ulteriormente i delicati e dolorosi processi di ritorno alla vita.

 A conclusione della carrellata di film visti al festival c’è Voyage of Time: Life’s Journey, l’ambizioso documentario sulle origini del pianeta al quale Terrence Malick lavora da anni, che rielabora ed espande alcune delle sequenze che già avevano diviso la critica nel personalissimo Tree of Life, film nel quale il regista americano intesse la propria biografia a quella dell’universo visibile e invisibile. Il risultato non è dei più felici, e va ad aggiungersi a To the Wonder (2012), che prosegue l’investigazione simultanea di ansie terrene e spirituali, e a Knight of Cups (2015), che si dedica quasi interamente alle tribolazioni di un protagonista fondamentalmente edonista, accentuando la già problematica caratterizzazione dei personaggi femminili che si risconta nella fase tarda e straordinariamente prolifica della carriera di Malick.