In another countryDa più di quindici anni il prolifico Hong Sang-Soo non fa che riproporre lo schema di base del suo cinema attraverso continue variazioni. Hong ripete, in buona sostanza, sempre lo stesso film (un sistema di incastri e simmetrie raffinatamente congegnato/scritto, e visualizzato con mirabile pulizia grafica, sulle impasse intrinseche tra un sesso e l'altro), apportando di volta in volta minuscole differenze e spostamenti.
_x000D_Senza ombra di dubbio, In Another Country è uno dei suoi esiti migliori di sempre. A renderlo tale è, soprattutto, il fatto che Hong abbia deciso di seguire la strada inaugurata col suo sottovalutato Ha ha ha (2010): spingere senza paura sul pedale della commedia, senza alleggerire, anzi addirittura intensificando, il gioco delle simmetrie, delle rime, dei parallelismi che affollano la sua scrittura.
_x000D_Il film consiste infatti in tre storie parallele, tre sceneggiature di cortometraggi che una ragazza scrive di getto sulla scia del racconto della zia al riguardo del marito che l'ha abbandonata. In ognuna di esse c'è una straniera che arriva in una cittadina balneare coreana (Isabelle Huppert), un bagnino, un regista poco conosciuto, una donna incinta, un faro e molti altri ingredienti ogni volta rimescolati in modo da far sembrare ognuno dei tre episodi “sognato” dagli altri due a forza di condensazioni/spostamenti rincorsi con successo dalla scrittura. Proprio come (e il film è mirabilmente chiaro su questo) è la gelosia dell'altro a “sognare” qualsiasi rapporto di coppia. I quali, perciò, non possono venire semplicemente raffigurati, ma resi attraverso una vera e propria topografia che tenga sempre in conto ciò che su questa “mappa” non vediamo, ma che informa la situazione presente come un fantasma irraffigurabile innerva un corpo. Un enigma la cui chiave è nelle tautologie che il monaco buddhista oppone alle angosce della Huppert, a cui rende visita nella terza parte: “Signor Monaco, perché ho paura?” “Perché hai paura”, e via dicendo. È la superficie della scrittura, quella su cui guida la nostra attenzione Hong Sang-Soo. Non c'è nulla davvero “dietro” – giusto un sottilissimo gioco di increspature, che fra le altre cose riesce anche a sdrammatizzare le discrasie tra i sessi, presentate allo stesso tempo come qualcosa di invalicabile e come un leggerissimo, inconsistente abbaglio “solo sognato”.
_x000D_Rispetto alle altre opere di Hong, In Another Country denota una maggiore varietà di soluzioni di purissima messa in scena per rimarcare le differenze/ripetizioni che intercorrono da un episodio all'altro (la stessa situazione viene ripresa, in diversi episodi, da differenti punti di vista della macchina da presa, oppure attraverso rapporti diversi tra ciò che sta sullo sfondo e ciò che sta in primo piano; la seconda volta che viene mostrata una tale strada, un leggero movimento di macchina la rivela essere in realtà un bivio… e quant'altro). E gode di un'interprete (non troppo) inaspettatamente perfetta per il suo cinema: la Huppert, infatti, conserva ogni volta la sua leggendaria patina di fredda imperturbabilità aggiungendo, però, ad ognuno dei tre personaggi che interpreta una caratterizzazione vistosamente differente, una traccia consistente della donna che di volta in volta indossa.
Killing Them SoftlyCon l'ennesimo Jesse James che ci aveva regalato nel 2007, Andrew Dominik si era affacciato alla ribalta internazionale con una riflessione Western tutt'altro che banale (e in realtà non molto compresa) sul mito e sulle insidie della demistificazione, la quale, anziché distruggere il mito, lo rende imbattibile.
_x000D_Cinque anni dopo, Dominik torna a riscuotere quello che gli è dovuto (una sorta di “visto? Le dinamiche perverse del mito si sono rivelate esattamente quelle che avevo presagito”), con il genere che notoriamente inverte le coordinate del western: il (neo)noir. Tra il 2007 e il 2012, infatti, c'è stata la crisi economica, e l'avvento di Obama – l'avvento, cioè, di un nuovo insidiosissimo mito, quello dell'alleanza, della supposta sintesi, tra la cronaca e il mito stesso.
_x000D_È questo mito che Killing them Softly riesce, con enorme intelligenza filmica ed estetica, a smontare. Esso comincia, infatti come una telefonatissima allegoria socio-economica: Dominik alterna un bel po' di repertorio audiovisivo diegetico (estratti dalle news, discorsi presidenziali televisivi e radiofonici tra i mesi dello scoppio della crisi – e del vantaggio di Obama – e l'elezione di questi) e ambientazioni di spaventosa desolazione geografico-antropologica che oggi siamo costretti a chiamare “ordinaria” persino nel contesto USA (che sia il Mid-West, il Sud o giù di lì), e un plot di (stavolta davvero) ordinaria amministrazione su un gruppetto di delinquentelli più o meno coperti e gravitante intorno ai tavoli da gioco, unica ed ultima risorsa, quest'ultima, per fare girare l'economia in una zona di provincia depressissima (e non molto precisata).
La metafora, dunque, è chiarissima: il piano statale di rifinanziamento del sistema bancario come astuta rapina grazie a cui, perversamente, un intero mondo (ridottosi nel frattempo a sottobosco poco legale) può ripartire. E se il film fosse solo questo, sarebbe un aborto. Per fortuna, però, fondendo insieme (come già nel suo Jesse James del 2007) con abilità i tempi allungati e rilassati del cinema degli anni Settanta e la serrata sapienza micronarrativa delle serie TV contemporanee (come dire: il sogno ingenuo della demistificazione rivisto alla luce della ultraconsapevolezza di oggi che fa continuamente a botte con il proprio stesso cinismo), Dominik piano piano ribalta le carte e il tavolo stesso: il mito rimpiazza via via la cronaca (come testimonia Obama che imperversa sempre di più in TV), e la narrazione, che in teoria dovrebbe dare linfa al mito, viene sempre più sminuzzata e resa simile alla cronaca. E “in teoria”, qui, significa anche che il personaggio di Brad Pitt, che gradualmente assurge a sorta di manovratore occulto che da dietro le quinte muove tutti i fili di ciò che succede, si autodistrugge prima di diventare davvero quel manovratore che non cessa mai di sembrare. Gli viene insomma negata quell’aura mitica a cui sembra essere destinato.
_x000D_In altre parole: lo spettatore viene sottilmente convogliato verso il complottismo, ma rimane con la propria sete. Viene negata la soddisfazione di trovare un genio del male a cui imputare la miseria presente. Il complottismo ha fatto già troppi danni nel decennio scorso: oggi, il nodo da risolvere, è quello che stringe insieme mito e cronaca, nodo da cui il film si lascia stritolare dialetticamente per buttarci davanti agli occhi il fatto che esso, anche se non ci sembra, sta stritolando anche noi.