Cartoline da Cannes (21-22 maggio)

AFTER THE BATTLELo si è detto (anche se non abbastanza): il cinema di Yussef Chahine, di Yusri Nasrallah e delle altre “punte” del quantitativamente sempre vitalissimo cinema egiziano, in qualche modo già da anni anticipava quell'intensità politica che sarebbe poi esplosa a piazza Tahrir. Inevitabile, allora, che prima o poi qualcuno si prendesse la briga di fare un film dopo la rivoluzione sulla rivoluzione. Abbastanza fisiologico che a farlo sia stato Nasrallah, in pochi anni autore non solo dell'esplosivo e straziante Bab El Chams (2004), ma anche dell'energicamente maieutico Shahrazad Tell Me a Story (2009).
_x000D_Reem appartiene alla giovanissima generazione del dopo-rivoluzione: inurbata, illuminata, proiettata verso il futuro, ha una cotta per Mahmoud, cavaliere che lavora per i turisti (assai diradatisi dopo l'inverno del 2011) nell'area vicina alle piramidi. Mahmoud insomma vive ai margini della società, ma subisce un'ulteriore marginalizzazione, perché a piazza Tahrir, tra i fedeli del regime che poco prima della caduta di Mubarak contrattaccarono a cavallo tentando di intimorire la folla, c'era anche lui. E le riprese video sono lì a dimostrarlo, e a inchiodarlo nonostante sia un personaggio tutt'altro che rigidamente negativo.
_x000D_Tutto ciò viene bruciato nei primi minuti di film. Dopodiché, il punto di vista passa molto liberamente da un personaggio all'altro (da Reem a Mahmoud alla decisiva moglie di Mahmoud), da una situazione all'altra – o meglio, da un bruciante conflitto all'altro. Freneticamente. Tutti i personaggi spingono sulla dissonanza delle proprie ragioni rispetto a quelle degli altri, e Nasrallah, giustamente, non fa nulla per pacificare, ma aggiunge a tutte queste voci la propria, il proprio filmare così incline alla sottolineatura esplicita (vedi il cruciale dettaglio simbolico del piede che sale sul cavallo, più volte ripetuto). In termini letterari (termini che sono essenziali per inquadrare lo stile di Nasrallah) è come se chi scrive/filma, anziché coordinare le molte voci che si esprimono energicamente in prima persona, aggiungesse in ogni momento la prima persona di sé narratore. I conflitti non vengono preparati, ma deflagrano letteralmente nello spazio di una scena, per passare poco dopo a un altro conflitto. Non meraviglia, pertanto, che una delle poche cose stabili che emergono di piazza Tahrir è che è stata tutto tranne che risolutiva: su quella piazza bisogna tornarci ripetutamente. Cosa che i personaggi e quel film puntualmente e periodicamente fanno.
_x000D_Questa, infatti, l'amara lezione che offre di sé la democrazia appena scoperta. Il cammino per la democrazia è duramente eterno: appena si stabilizza, non è già più democrazia. La contraddizione della giovane “borghese” che cerca di redimere il sottoproletario fisiologicamente tendente “a destra” e attaccatissimo ai due soldi che gli dà il capopopolo “mafioso” di turno è solo la prima di una sfilata di conflitti che non possono avere fine. E che bisogna ogni volta rinegoziare e rilanciare strappandoli alla perigliosa “visibilità” mediatica (il film è molto chiaro su questo, e dedica tutto un importante sottotesto alla riscrittura e riappropriazione delle immagini che i media proclamano ideologicamente quali “documentarie”).
_x000D_Chi conosce anche solo appena il contesto cinematografico di afferenza, non si sorprenderà: tutto ciò è riconoscibilmente nel DNA di “quel” cinema egiziano. Non si dovrebbe, tuttavia, considerare questo come un punto a sfavore del film. Il senso di quest'operazione (molto al di là di qualsiasi “originalità” che finirebbe con l'essere fine a se stessa) sta nel postulare una continuità con un certo cinema al di là della discontinuità storica con la quale esso, inevitabilmente, si lega. Proprio perché il processo della democrazia non ha e non può avere termine.


Vous n’avez encore rien vuCon L'amour à mort, Alain Resnais cominciava una geniale serie di film impieganti ogni volta sempre gli stessi attori (a cominciare da Sabine Azéma e Pierre Arditi), ognuno di essi una sfida a cercare il non plus ultra del cinema in pièce teatrali (anche mediocri) la cui teatralità veniva ogni volta tirata agli estremi.
_x000D_Con questo nuovo immenso Vous n'avez encore rien vu, Resnais, piuttosto avanti con gli anni, ci racconta la storia di un regista teatrale le cui disposizioni testamentarie (si è appena suicidato) consistono nel radunare i suoi attori preferiti, quelli con cui più volte ha lavorato (guardacaso Sabine Azéma, Pierre Arditi, Lambert Wilson e compagnia bella), nella sua tenuta in montagna. E lì, il maggiordomo mostra loro le riprese di una messa in scena teatrale contemporanea di Orfeo e Euridice (nella versione modernizzata – decenni fa – da Jean Anouilh); e chi ha visto L'amour à mort (film di cui questo è un folgorante aggiornamento, oltre che la chiusura del cerchio che quell'opera aprì) sa che quel mito ne è l'ispirazione neanche troppo nascosta. Da subito, senza nemmeno bisogno di prove, il mito letteralmente prende vita tra gli attori che, al di qua dello schermo, assistono a quelle riprese.
_x000D_È l'inizio di una sequela mozzafiato di intersezioni teatro-cinema-vita – quelle a cui molto cinema ci ha abituato, da decenni, in varie modalità, ma raramente con un'inventiva così viva, spiazzante, ricca. Ogni istante è una sublime invenzione registica collocata là dove il mito dei due amanti separati dalla morte (e che possono riunirsi alla condizione – subito disattesa – che Orfeo non guardi il volto dell'amata proveniente dall'oltretomba) incontra lo scambio inesauribile tra la vita e quella sua “morte” che è il teatro. Due livelli (che la regia serve e illustra ogni volta alla perfezione) che convergono nell'amore come intrinseca impossibilità della ripetizione.
L’utopia di Orfeo e Euridice, che vogliono chiudersi in un’unicità che lasci loro intatti (utopia la cui impossibilità è la causa diretta della morte di Euridice) è il tentativo, destinato allo scacco, da parte del teatro di chiudere il mondo nelle sue quattro pareti. Impresa impossibile, se già gli stessi Orfeo e Euridice sono doppi loro stessi (in platea ci sono due Orfei e due Euridici) – e ogni istante, soprattutto, pullula di fantasmi al nostro fianco (nei termini dell’estetica di Resnais, noi “vivi” siamo solo uno dei blocchi di virtualità che compongono lo spazio, e che il film sciorina uno dopo l’altro). Impresa impossibile che conduce alla morte ma rende eterno l’amore – e di questa eternità è testimone il cinema, il quale (ecco il senso del Resnais “ultrateatrale” degli ultimi anni) è la certificazione che il teatro non finisce mai di morire, ed è quindi eterno.
_x000D_Vous n’avez encore rien vu, come suggerisce il titolo stesso, è un film da vedere più volte: un vero e proprio scavo nelle pieghe di un testo che arriva al limite ultimo di dove si può arrivare: la ripetizione (e l’amore – ma è la stessa cosa) come punto di troppo veloce incontro tra quei due amanti che sono la vita e la morte. Pedinando da presso la lettera del testo di partenza, e con la sua famosa “regia a blocchi” che coordina astratte, spigolose unità semiautonome grafico-cromatiche, Resnais firma non un film cerebrale, ma l’esempio DEFINITIVO di quello che Gilles Deleuze chiamò (proprio a proposito del regista francese) “cinema-cervello”.
_x000D_Appena passarono il ponte, i fantasmi vennero loro incontro…