Cartoline da Cannes (17-19 maggio)

Le havreI critici di Libération l’hanno paragonato a Chaplin. E di Didier Peron, Philippe Azoury, Bruno Icher e Olivier Seguret non ci si può che fidare ciecamente. Le Havre di Aki Kaurismaki è l’unica vera Palma d’Oro di Cannes 2011. Il cinema del poco e dell’essenziale, della stilizzazione dei particolari e dell’antiretorica tipica del regista finlandese, con Le Havre arriva all’apice dei risultati. E lo fa perché oltre al solito protagonista miserabile, perduto e perdente, stralunato e schizzato (qui è Marcel Marx-André Wilms), l’accoppiamento minimale avviene con l’avvenimento macro come quello dell’immigrazione clandestina. Marx, un passato da bohemienne, ora fa il lustrascarpe al porto di Le Havre. A casa, una tipica casa alla Kaurismaki svuotata di ogni suppellettile, una moglie buona che lo accudisce. D’improvviso un container con tanti begli immigrati infreddoliti. Idrissa, quello più giovane, scappa a gambe levate dalla polizia in assetto da combattimento. Marx lo incontra per caso, gli lascia un panino da mangiare poi se lo porta a casa, con nobile distacco emotivo e narrativo, con elegante postura da signore qual è. Ecco lo slittamento sottile tra estetica ed etica che già in Kaurismaki c’era e qui si compie definitivamente. L’incontro stilizzato, ironico, scevro di spettacolarizzazione si fa metafora culturale di come il cinema possa raccontare l’utopia della contemporaneità: la solidarietà e l’accoglienza verso gli immigrati. Ecco allora Chaplin, lacrime di gioia e dolore. Humor finnico/francese che sfotte beatamente i bestioni della police, immerge nel melodramma parti del racconto (quelle con Arletty, Kati Outinen, moglie malata terminale), tiene il tono del discorso sempre sospeso in una dimensione simbolica del sociale (le legge, la differenze di classe). Marcel Marx senza spiegazione alcuna, semplicemente salva, accudisce, nasconde il ragazzino fuggiasco, trovando pure 3mila euro (che non ha) per spedirlo dai genitori in Inghilterra. Tanto per fare un esempio di cosa voglia dire il Kaurismaki touch in termini comici, basta seguire l’esilarante sequenza dell’immersione da miserabile tra i miserabili rinchiusi nei centri di detenzione temporanea per parlare con il nonno di Idrissa. Marx, bianco di pelle e capelli, si trova di fronte ad un esterrefatto  e sorpreso funzionario del ministero a cui si rivolge con risoluta pacatezza: “Sono l’albino della famiglia!”. In questa sospensione d’incredulità, sommatoria di una recitazione mai empatica e della maniacale cura su una luminosità artificiale naif, il cinema di Kaurismaki diventa invincibile antidoto ai luoghi comuni della politica buonista. La crisi morale, economica e sociale dell’Europa di oggi non l’ho mai vista così realisticamente rappresentata al cinema come in questa fiaba. E’ un paradosso, ma è così. Kaurismaki non risparmia il suo tradizionale approccio formale fatto di segni impercettibili che ogni volta sanno spiegare il tutto, l’immancabile bizzarro stacco musicale diegetico, il cagnetto, l’alcool (a fiumi) e una chiosa finale dove la bontà del gesto sociale crea perfino un miracolo (raro nel pessimismo del nostro) con un albero in fiore che ricorda il riflesso di qualche frammento di Ozu._x000D_
MELANCHOLIAA Malick il racconto delle origini del mondo e a Von Trier il racconto della sua fine. Triste comunque che nel momento in cui scrivo Von Trier sia stato estromesso definitivamente da Cannes per le sue dichiarazioni antisemite. Polverone montato ad arte dalla stampa che qui non guarda i film ma attende le dichiarazioni extrafilmiche per vendere i propri giornali e in cui Von Trier è cascato come un babbeo. Che Von Trier sia un pallone gonfiato, razzista e qualunquista, lo si evince parecchio, e da anni, grazie al suo cinema, inutilmente pubblicizzato come rivoluzionario, diventato da provocazione culturale dogmatica a propaggine pubblica delle sue private sedute psicanalitiche. Melancholia, di quest’ultima virata, ne è la summa più completa, ma non di certo più visionaria (la libertà formale di Antichrist era qualcosa di molto più anarchico). Prima parte dedicata a Kirsten Dunst, una  Justine depressa che rifiuta un matrimonio di lusso già pronto e pagato dalla sorella Claire (la Gainsbourg) e il cognato (Kiefer Sutherland-Jack Bauer di 24), mandando all’aria rapporti familiari, di lavoro e di sesso, tutto in una sera, tutto tra salone delle feste e giardino resnaisiano geometricamente tenuto (Festen, insomma). Seconda parte dedicata alla sorella Claire ambientata nella sontuosa villa di prima, dove lei abita con marito e figlioletto. Spazio isolato dal mondo e dagli uomini (dovrebbero essere in America ma sono in Svezia), dove il pianeta Melancholia, nella prima parte soltanto materia di chiacchiericcio, sta orbitando vicinissimo alla terra e a breve la distruggerà vista la proporzione a favore di uno a dieci. Attenzione allora a cosa ci dice Von Trier: Justine è depressa quindi vede il mondo al contrario e la fine del mondo le fa un baffo; Claire che ha qualcosina da perdere si fa prendere dal panico e cerca di fuggire. Fermiamoci qui pena lo spoiler (che poi sarebbe l’unico elemento visionario della messa in scena del nazista danese). Von Trier contrabbanda l’ennesimo rigonfiamento estetico per una rappresentazione totale dell’apocalisse. Mai come in questi casi il luogo comune del “ne poteva tagliare un po’ ” è stato più calzante. E poi la Dunst, accidenti, è un corpo così molle, sgonfio, impacciato, distruttibile, impossibile da posizionare  come estremo baluardo di una passiva e sentita resistenza all’impatto distruttivo imminente (l’esposizione notturna ai raggi biancastri di Melancholia da diva dei fifties grida vendetta)._x000D_
SKOONHEIDCome per il film di Dresen, giorni fa, ci sono sequenze di questa Cannes 2011 che rimangono impresse nella loro fredda e pura asciuttezza evenemenziale. Quello che viene mostrato non ha scappatoie, non permette di fuggire, non c’è via di scampo. Stavolta è il turno di Skoonheid del sudafricano Olivier Hermanus e più precisamente della sequenza di un violento e insistito tentativo di stupro compiuto da un cinquantenne, all’apparenza felicemente sposato e con un’azienda di legname da gestire, ai danni del nipote ventenne di cui si è innamorato. Ora, la sequenza è inserita in un contesto più ampio e articolato di un film dignitosissimo dove in scena vengono presentati robusti signori di mezza età molto afrikaner che si ritrovano a fare orge in fresche case di campagna. Signori che comunque confermano lo squallido precetto razziasta, tanto che quando uno di loro porta nel gruppo un bel ragazzetto di colore, viene immediatamente espulso. Omosessuale e razzista non è un’accoppiata inedita e nemmeno da scandalo. Semmai è un cortocircuito ipocrita per chi lo vive. E il protagonista di Skoonheid corre proprio dal medico a chiedere che cosa gli sta succedendo, magari per avere una medicina come per il raffreddore, solo perché non vuole cedere alla tentazione naturale di dichiarare prima di tutto a se stesso di essere gay. L’atto cinico e impositivo dello stupro, peraltro preparato in modo tale da rendere le forze in campo perlomeno alla pari (il nipote che finisce vittima degli stratagemmi dello zio è un palestrato e affascinante ragazzo, forse più forzuto del maturo parente), è un tassello esplicativo di una brutale virilità maschile universale, paradossalmente più odiosa e deprecabile di uno squilibrato e identico gesto compiuto nel “classico” stupro uomo vs. donna, proprio perché rappresentato tra due uomini con un apparente equilibrio tra difesa ed attacco._x000D_
CORPO CELESTEScene da un catechismo. Tratto da un romanzo di Anna Maria Ortese e riattualizzato credenze e bagagli spirituali dell’oggi, l’opera prima di Alice Rohrwacher affronta lo sradicamento di una tredicenne dalla Svizzera, dov’è nata, per tornare alla natia Reggio Calabria. Il reinserimento sociale si attua con prolungate frequentazioni della parrocchia in vista della cresima, tra perpetue assillanti e preti distratti. Tanta, troppa carne al fuoco a livello tematico (la fede di adulti e bambini, lo sprofondo culturale del meridione, i rapporti familiari su tre linee diverse, la corruzione politica tramite la chiesa, ecc…) per una regia che non sa instaurare e proporre un vero e proprio punto di vista sui temi fagocitati, che non sia lo stare vicino a qualche corpo in scena con una tremante macchina da presa a mano. Tanto rumore, italiano, per nulla. E, infine, quando sentiamo dalla bocca del direttore della Quinzaine, Frederic Boyer, che “l’anno scorso avevamo la Calabria di Frammartino con Le quattro volte e quest’anno la Calabria della Rohwacher” da un lato penso che ci sia qualcosa che non va tra i corridoi della Quinzaine e poi ricordo a Boyer come la Calabria di Frammartino poteva essere il Friuli, l’Oregon, il Sahara. Boyer: ma hai capito di cosa stiamo parlando?