Moonrise KingdomDopo l’inevitabile approdo all’animazione, Wes Anderson torna al live action con un’opera nella quale, cristallizzando figure e forme ritornanti del suo cinema e accentuando alcune delle opposizioni strutturanti la sua “maniera” (geometrie stilizzanti e slanci anarcoidi) non rinnova, forse, ma rinverdisce sicuramente un discorso che era ad un centimetro dall’impasse. Stilisticamente ammaliante, narrativamente inattaccabile e ideologicamente ossimorico, pervaso com’è da un autentico desiderio di fuga e da un pessimismo ora strisciante, ora palesato, Moonrise Kingdom è una sorta di Melancholia ridisegnata da Hanna & Barbera dopo un’overdose di Xanax._x000D_
_x000D_Wes ha ancora molto da dire.
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De rouille et d’osDopo il successo del notevole (e in parte sopravvalutato) Profeta, Jacques Audiard ha il coraggio di spingersi oltre i limiti del ragionevole per pedinare l'incontro di due difformità simili nella differenza radicale. Sempre più prossimo ai corpi, onde captare i sospiri di un dolore abissale e indicibile, da esorcizzare in reiterati atti di violenza, il regista imbastisce un racconto in cui una relazione pornografica fondata sull'operatività è già (e più di) una relazione amorosa. Nega la causalità stringente del melodramma classico per affermare l'impossibilità di dare una forma piena e chiusa a qualcosa di più fragile delle ossa e di più cigolante di un ingranaggio arrugginito.
_x000D_De rouilles et d'os è l'unico mélo audiardiano possibile: mutilo.
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RealityOggi, col senno di poi, è assai più facile considerare Gomorra come quel film enormemente sopravvalutato che era. Un’operazione dall’approccio pigramente debitore all’arte contemporanea, nella sua troppo meccanica commistione di flagranza documentaria e elaborazione visuale. Più nello specifico, a infastidire era il suo occhio troppo a-problematicamente descrittivo, troppo altezzosamente distaccato dalla materia raccontata, troppo sicuro di poter restituire una base informativa “impegnata” abbastanza solida da poterci ricamare sopra visivamente con sostanziale arbitrarietà e compiacimento. Reality, sulla carta, moltiplicava i rischi: già si immaginava, e si temeva, una possibile tirata sociologica sui rischi della fuga nell’immaginario cheap neotelevisivo, condita come sempre da arguzie fotografiche-scenografiche di prim’ordine.
_x000D_E invece no. A sorpresa, Garrone va molto oltre. Dietro la parabola del pescivendolo napoletano che molla tutto irretito dalla chimera del successo facile che i reality show sarebbero in grado di procurare, non c’è una banale condanna, una risaputa presa di distanza. C’è invece una vera e propria battaglia teologica al centro di cui c’è l’occhio che tutto sa e che tutto vede: nulla di soprannaturale ovviamente, bensì qualcosa che stringe insieme molto concretamente religione, società e (infine) i media. In fondo, anche in Gomorra era questione di quest’occhio: allo spettatore ansioso di essere beneinformato veniva “venduta” la possibilità di contemplare (in tutti i sensi) una situazione e giudicarla dall’esterno – un po’ come in un reality show viene “venduta” allo spettatore la possibilità di occupare il posto di chi tutto vede dall’esterno – e giudica. Reality, meritoriamente, si pone il problema di come aggirare, o debellare, questo occhio che tutto sa e che tutto vede. Quest’ultimo apre e chiude il film con due lunghe, splendide inquadrature in movimento dall’alto: tra la prima e la seconda, trapela nientemeno che una soluzione utopica a questo enigma teologico.
_x000D_E la soluzione è questa: davanti a un invincibile “cingolato” istituzionale che annichilisce qualunque tentativo di fuga e di indipendenza nella triplice morsa di società, religione e media, l’unico modo di uscirne è abbracciare completamente, fino alla follia, la voglia di essere guardati da uno sguardo immaginario che “certifichi la propria esistenza”. Il protagonista del film, infatti, comincia a vedere dappertutto l’occhio del grande fratello, e in questo modo finisce per scombussolare la macchina istituzionale che sta tutt’intorno. A cominciare dal lato religioso (che Reality ha la maturità di porre a centro evidente del proprio discorso): il Prossimo, cattolicamente, è il punto “nella realtà” in cui l’occhio che tutto vede (Dio) si incarna. E lui, dal Prossimo, ne viene letteralmente ossessionato. Il prete ha un bel voler insistere sul dovere di distinguere essere e apparire: per Luciano, giustamente, sono la stessa cosa, e il Prossimo è il loro punto di convergenza.
_x000D_Più nello specifico, il film si allinea con diligenza finanche sinistra, sospetta, pelosa all’inevitabile riassorbimento da parte della macchina istituzionale religione-società-media, che tutto vede e tutto riassorbe giocando al gatto col topo con l’apparenza e con la realtà. Tuttavia, si fa scuotere di continuo da una sana, benvenuta (nel cinema fin troppo liscio di Garrone) contraddittorietà: finisce insomma, qua e là, per aderire per davvero alla “santa” follia del protagonista, l’unico ad andare fino al fondo del paradosso “teologico” del Grande Fratello.
_x000D_Come a dire: che non scherzino i vari Greenaway, Haneke e compagnia a giocare con le frontiere postume dell’arte contemporanea, col suo essere ormai “passata” tutta nella “realtà” oscillando nevroticamente tra il dentro e il fuori dello sguardo rispetto a ciò che guarda. Questa roba qua, la “spettacolarizzazione della vita quotidiana” che unisce arte e vita in una medesima agonia, noi ce l’abbiamo da parecchi secoli: sono lì (sorpresa!) quelle “radici cristiane” di cui tanti in questi anni si sono riempiti la bocca a sproposito. Vale la pena non dimenticarlo, in un Paese come il nostro dove, nel giro di pochi mesi, si è passati, politicamente, da un regime di presunta fantasia al potere a uno in cui, al potere, c’è un presunto risveglio nella realtà.
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