HALT AUF FREIER STRECKESono passate parecchie ore, ma da quella camera non riesco più ad uscire. Parlo della stanza in cui muore per un cancro al cervello il protagonista di Halt auf freier strecke. Andrea Dresen all’ottavo lungometraggio ci fa precipitare senza appiglio alcuno giù per l’abisso della morte. Come lo strapiombo verticale in Germania anno zero, il corpo del protagonista si lascia andare improvvisamente nel vuoto e non si ferma se non al suolo, esanime. Si entra subito, senza esitazione, nella vita di Frank Lange che assieme alla moglie si trova di fronte alla scrivania dell’oncologo. Diagnosi senza possibilità di guarigione. Qualche mese e si crepa. Bisogna dirlo ai figli e ai genitori. Bisogna capire come affrontare quotidianamente la malattia mortale da casa, senza finire i propri giorni in ospedale. Ecco sento già il solito refrain, quello di chi dice che la morte è un tema “ricattatorio”. Ebbene di etico in questa opera stridente e pudica, c’è prima di tutto lo sguardo. Perché hollywoodianamente (o “cinecittianamente”) la morte viene osservata con la spettacolarizzazione del dolore, con l’iperpresenza di colpi di scena, con quella lacrimevole malinconia che coglie tutti dai familiari al droghiere. Sarà ma in Halt auf freier strecke di questa roba qui non ce n’è proprio, anzi. Frank tra una chemio e l’altra, deperisce progressivamente, non migliora mai e nel farlo diventa più cattivo, isterico, incazzato. Non si dà pace lui e non riesce a dare pace a chi gli sta attorno. Così, rimanendo per tre quarti di pellicola con la macchina da presa dentro ad una linda e rilassante casetta di periferia berlinese con vista sul bosco (innevato e non), la sensazione è proprio quella di non riuscire a far niente per salvare il malato e salvarsi dal malato. Non ci sono vie di fuga concrete e diegetiche, semmai qualche allucinazione del protagonista (comicità teutonica si dirà) con la patologia e il nome di Frank strombazzati in brevi spezzoni di talkshow in tv, nei notiziari della radio o con questa autoripresa del moribondo tramite IPhone che si rivela materia irreale. Insomma, Dresen ti fa stare dentro al dolore con un rigore e una forza espressiva davvero potente. Una costrizione, questo sì, ma quando si ha un tale controllo della materia cinema, come spettatore farsi costringere non è mai così politicamente scorretto._x000D_
HORS SATANIn un concorso cannense che da un lato richiama i veterani del passato a fare da riferimento estetico (Von Trier, Kaurismaki, Dardenne) e dall’altro cerca nuove pallide leve (Leigh, Cedar, Ramsey) a cui affidare il cinema schizoide della contemporaneità, Hors satan arriva lungo: in Concorso verrebbe fischiato, ma nella corsia parallela di gara del Certain Regard non puoi non accorgertene. Bruno Dumont a mio avviso è uno dei quattro/cinque registi europei che sta riscrivendo il cinema da capo. Nel senso che rielabora i parametri dell’inquadratura e la classica scansione tripartita del tempo del racconto come se nessuno fosse mai arrivato prima di lui. Nel suo caso è comunque ovvio che l’apprendistato l’ha fatto sui film di Bresson a cui però aggiunge parecchi motivi perturbanti legati alla sessualità, alla pulsione di morte e alla violenza, assolutamente peculiari. Il santone, protagonista di questa silente messa in scena (nessuna musica, rumore del vento o dell’acqua, pochissimi dialoghi), dorme in un giaciglio improvvisato tra le dune e le foreste della Cote d’Opale sulla Manica. Unghie lunghe, taglio di occhi, sopracciglia e bocca luciferini per natura e non per trucco di scena, l’uomo ha come accompagnatrice una giovane mascolina fanciulla che abita in una fattoria lì vicino e che sembra uscita da qualche concerto dei Metallica. Lei lo segue in queste infinite passeggiate che ricordano il duo Garrel/Nico de La cicatrice interieur. Anzi Hors Satan è un film totalmente incentrato su questo continuo peregrinare tra le frasche, gli stagni, la sabbia del territorio esplorato. Ogni tanto una strana preghiera inginocchiati con i palmi rivolti verso il sole al tramonto, ma sempre continue, reiterate camminate senza niente e nessuno attorno ai due protagonisti se non qualche intralcio o inciampo letteralmente fatto fuori a bastonate o con un fucile dal diavolo (probabilmente). Il fatto è che questi caratteri che occupano la scena non fanno trasparire emotività, non fanno percepire il sangue che scorre nelle loro vene. E’ un cinema evenemenziale quello di Dumont che lentamente fa scoprire e dà spazio allo straordinario dentro al palesemente ordinario. Che ci sia del divino negli esseri umani, Hors satan lo conferma appieno, lasciando una sensazione di aggiornamento rispetto a L’humanité e La vie de Jesus._x000D_
MichaelPer gli austriaci il sequestro di Natascha Kampusch dal punto di vista della comunicazione dei media deve essere stato uno di quegli avvenimenti così devastante da aver stravolto l’approccio e l’interesse in materia di pedofilia come nemmeno in Belgio ai tempi di Dutroux. Markus Schleinzer alla sua opera prima prova a ricostruirne una sintesi cinematografica camuffando alcuni elementi originari con una nuova versione del lager per bambini made in Austria. La sinossi del film risulta questa: “gli ultimi cinque mesi di forzata vita comune tra Wolfgang, 10 anni e Michael, 35”. Ecco, il fulcro del racconto non è il bimbo. Anzi, del bambinetto allo spettatore non può che fregare pochino, giusto l’accondiscendenza naturale per la vittima che ognuno di noi prova. In Michael il fulcro dell’impianto drammaturgico è il tranquillo travet (fa l’assicuratore, attente mamme) di provincia che finge di avere una fidanzata lontana, di sapere sciare da campione azzurro e gestire la propria esistenza, ma che invece ha costruito un’impenetrabile e sadica gabbia nella sua cantina dove segregare e violentare dei bambini. Psicologicamente non si sa bene quale sia la patologia a cui appartiene il disturbo e soprattutto la spiegazione poco ci interessa. Semmai ci importa rilevare la costruzione del racconto, fatta di linee progressive dell’incedere e non di una banale ripetizione ossessiva dei gesti che renderebbero Michael un tradizionale maniaco. Invece di affidarci a picchi di suspense, per comprendere le intenzioni del rapitore dobbiamo seguirne la progressione delle azioni, gli ostacoli sul percorso, le difficoltà di chi rapisce piuttosto che quelle del rapito: non per questo assumendone moralmente il punto di vista. Un cinema che comunque spiazza e lascia attoniti di fronte al delirio del singolo e alla sua inconsapevolmente misera esistenza._x000D_
LA FIN DU SILENCEUn piccolo film girato per due mesi nell’autunno del 2009 tra i brunastri e fangosi Vosgi francesi. In medias res esplode la rabbia giovane di Jean. Subito un litigio furioso con il padre e il fratello maggiore, poi il vicino bracconiere che lo stima e lo svezza alla caccia lasciando sbadatamente aperta la mensola dei fucili. Jean ruba una carabina di precisione e mette sotto assedio la fattoria di famiglia con annessi patrigno e matrigna corsi ad avvisare del pericolo. La fin du silence è un dramma familiare che presto si trasforma in austero lavoro sugli archetipi del western per poi chiudersi con un triello finale che avrebbe impressionato probabilmente anche John Ford. Jean/Franck Falise è un autentico, silenzioso, mostro di bravura. Arrangiamento musicale funzionale, minimale ed appena accennato del Christine Ott Quartet.
THE TREE OF LIFEPrendete la Bibbia, Jurassic Park e la mascella del tenente Aldo Rain in Bastardi senza gloria ed ecco The tree of life, l’albero della vita. Questo, almeno, quello che hanno pensato le decine e decine di accreditati per la stampa di mezzo mondo che hanno sonoramente fischiato l’ultima, attesa, fatica di Terrence Malick. Per me, invece, The tree of life è un attraente oggetto del desiderio che non lascia di certo l’amaro in bocca. Intanto la durata: due ore e venti. Non un’esagerazione, ma nemmeno un filmetto qualsiasi da novanta minuti tondi per la gloria di esserci. Successivamente una trama che più semplice non si può: padre (Brad Pitt), madre (Jessica Chastain), tre figli, tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60 in una lussureggiante, anche se non troppo agiata, casetta di una lontana periferia. Salto temporale, per modo di dire, disgrazia che colpisce la famiglia e il primogenito oramai adulto (Sean Penn) comincia a ripensare gli insegnamenti e le forzature paterne e materne. Nulla però si richiama ai canoni classici della messa in scena del dramma. Semplicemente perché per Malick prima di tutto fare cinema significa un’urgenza espressiva sbalorditiva. Sequenze fugaci, suggestioni isolate, come se lo sguardo del cineasta stesse rubando documentaristicamente o realisticamente in quell’istante tracce di vita umana tra prati e cucinotti. Eccolo, allora, l’atto della creazione del cosmo e dell’uomo. Il primo in un discutibile caleidoscopio da National Geographic che sfocia persino in una sequenza in cui si incontrano due dinosauri per aggiornare i conti in sospeso lasciati dalle scimmie di 2001; il secondo come simbolico albero della vita terrestre dove il padre impone biblicamente ai fanciulli il rispetto dell’autorità paterna e l’uso della forza per sopravvivere e la madre, più debole fisicamente ma più affettivamente presente, richiama al fine della felicità soltanto attraverso l’amore per il prossimo. Coadiuvato da ben cinque montatori, Malick gira in stato di grazia ogni singolo frammento del film (e chissà quanti ne avrà scartati) soprattutto nei tre quarti di ambientazione attorno e dentro la casa dei protagonisti: mai un primo piano gratuito, ricerca automatica di un punto macchina che si abbassa ad altezza gambe e piedi e vi sta perennemente dietro, un dinamismo perenne della cinecamera da non fraintendere con alcun dogma danese o con l’abbozzo dell’improvvisazione. Semmai in questa confezione così precisa e mia sbavata, in questo incedere ieratico, il rischio è quello dell’imbalsamazione mitologica dei protagonisti. Comunque nessuno come Malick, oggi, negli Stati Uniti, o forse sull’intero globo, sa filmare una storia così oltre la dimensione materica dell’umano, così dentro la dimensione assoluta e misteriosa delle radici naturali e inspiegabili del cosmo._x000D_