Cartoline da Cannes (11-12 maggio)

MIdnight in ParisDopo Midnight in Paris è ora di indire formalmente una sottoscrizione e non prenderci più in giro. Woody Allen non può più figurare come regista cinematografico, nemmeno se il più prestigioso festival del cinema lo invita ad aprire “fuori concorso”, perché Allen non è mai stato in Concorso a Cannes o Venezia, la sua 64esima edizione. Una petizione ad excludendum in modo che non si senta più dire: “sì, ma gli ultimi Allen sono diversi dai primi”. Ebbene oramai la lista post ’92, post Mariti e mogli, ha ora superato quantitativamente quella del pre. Impossibile allora continuare in questa costante autodemolizione del mito. Allen incapace di ricostruire il proprio sé delle origini, opera con assiduità a distruggerlo con una pervicacia degna di miglior causa. Midnight in Paris statizza e amplifica il frastuono di chincaglieria discorsiva, di quei piani americani in coppia girati in fretta e furia, di quella inutile sfilata di star hollywoodiane a recitare battute vuote di senso che paiono l’unico bagaglio cinematografico in possesso del comico newyorchese. Qua, addirittura, si autocelebra biograficamente il proprio fallimento di letterato, costretto ad essere sceneggiatore invece che romanziere, fino a quando non si slitta per nostalgia dei bei tempo in una dimensione temporale anni ’20 zeppa di sosia di Bunuel, Dalì, Hemingway e Gertrude Stein. Una parata imbarazzante ed indecorosa che affossa sempre di più l’ingobbita sagoma alleniana, destinata per suo volere ad una pietosa fine carriera.
Sleeping beautyD’altro canto l’ombra lunga del presunto cinema d’essai anni ’90 a Cannes 2011 si materializza nella doppia cornice al femminile che stupisce per rischio d’impresa, ma non necessariamente nella sua resa finale. Con Sleeping beauty, Julia Leigh disegna un quadro raffreddato, debitore di pallori giovanili e di morbosità trattenuta alla Egoyan, rifacendosi alla classica figura de la belle endormi di Perrault. Incastonata la vicenda di Lucy (Emily Browning) al tempo presente, Leigh tenta la strada dall’asettica ripetitività delle azioni e dei luoghi entro cui compierle, mettendo in primo piano sequenza dopo sequenza, sempre l’efebica studentessa universitaria che per arrotondare fa la cameriera, la cavia per un sondino gastrico, la segretaria chinata sulla fotocopiatrice e la squill(in)o d’alto bordo. Solo che gli agiati e attempati signori che animano altezzosamente le cene, e che pretendono massima pulizia, eleganza e nudità alle ragazze, amano un bordello tra Eyes wide shut e Il fantasma della libertà. Tanto che per arrivare al dunque, uno ad uno ed in tempi differenti, i ricconi finiscono nella stanza d’epoca dove Lucy, volontariamente addormentata, li attende nuda tra le lenzuola. “La tua vagina è un tempio” afferma perentoria la maitresse, “non ci sarà penetrazione”, ma Lucy risponde subito che “la sua vagina non lo è”. Eppure in questa regia congelata con diretti e immobili piani frontali, non si sente la necessità del sorriso o dell’indignazione. L’opera prima della Leigh è così poco familiarizzante con lo spettatore che fa già impressione. Dietro la macchina da presa si erge una severa ad autoritaria maitresse del quadro ipercontrollato; di fronte ad essa un soggetto protagonista che diventa un vero e proprio oggetto di sperimentazione o, come ha scritto Liberation: “un ratto da laboratorio”. Il risultato staziona tra il più conclamato distacco e la feticistica attenzione di alcuni dettagli della preparazione corporea di Lucy prostituta.
We need to talk about KevinSempre sulle tracce di un cinema anni ’90, intriso di una superbia formale ed autoriale finanche ributtante, è We need to talk about Kevin di Lynn Ramsey. Collocato in una periferia agiata nordamericana lo strano rapporto madre e figlio (Tilda Swinton e Ezra Miller) che lascia fuori dal quadro papà John C. Reilly e secondogenita un po’ ritardata. Il racconto procede a sbalzi, per ricognizioni quasi sensoriali, per dettagli simbolici di sangue, pomodori, marmellate, cibi spiaccicati nei piatti e sui tavoli. Emerge la distanza, l’incomprensione, per certi versi una sorta di intrinseca diabolicità del neonato Kevin che invece di arricchire, sconvolge la tranquilla vita dei suoi genitori. O meglio, è mamma Eva a non riuscire proprio a far entrare il mutismo/autismo del fanciullo nel suo equilibrio mentale. Il ragazzo crescerà autonomo e piuttosto violento, in parte opponendosi alla madre, in parte coltivando un immotivato odio per il mondo. We need to talk about Kevin inizia in levare con una Swinton sconvolta che ha cambiato vita, in peggio e in miserabile autocostrizione, e finisce ancora in levare in mezzo alla tragedia, alla violenza catartica della tradizionale, abusata, strage da college. In mezzo tanti spunti intenzionali di regia che dovrebbero unire ma che invece separano e seghettano il girato in brevi e fulminei frammenti. Forse visivamente troppo eterogeneo, forse culturalmente troppo risaputo, il film della Ramsey rimane comunque a metà del guado, tentennando, senza mai scegliere se nel caos è più importante l’esercizio di stile o la logica contiguità del narrato.

RestlessSorprende invece il Restless di Gus Van Sant, subito immerso in un’atmosfera bohemienne newyorchese, dalla nebulosa ed offuscata fotografia di Harris Savides. I due giovinetti, glamour fin nel pensiero, sono l’Alice di Tim Burton, Mia Wasikowska ed il figlio di Dennis Hopper e Katherine LaNasa, Henry Hopper. Lui ama andare ai funerali degli sconosciuti, dopo aver perso i genitori; lei ha solo tre mesi di vita causa cancro. I due si incontrano ad una cerimonia funebre e non si lasciano più. Solo che in Van Sant lo svilupparsi della storia d’amore si astrae e finisce fuori dal tempo e dallo spazio dell’attuale: si allude con controllato cinismo al darwinismo evoluzionista, si ironizza sul trapasso imminente, si gioca con un’ingombrante materia della storia (l’atomica sul Giappone) perché un fantasma amico del ragazzo è un kamikaze nipponico che gioca con lui a battaglia navale (vincendo!). Van Sant dispone il narrato e lo filma agilmente, screziando l’opera di malinconia estetizzante, mimetizzando la colonna sonora di Danny Elfman che da invadente si fa incredibilmente amica, avvicinandosi alla morte della protagonista, senza mai voltarsi indietro concedendo qualcosa alla commozione o alla lacrima più facile. Film straziante proprio per la sua elegante e pudica compostezza espressiva.