Fra i tanti festival costretti a reinventarsi per far fronte all’emergenza dettata dalla pandemia c’è anche la kermesse di Toronto, che ha scelto un approccio ibrido e dislocato. Sotto la direzione di Cameron Bailey, che ha preso le redini dell’organizzazione nel 2018, il festival si è imposto dei limiti quantitativi, riducendo i film presenti a cinquanta (rispetto ai 333 lungometraggi dell’edizione del 2019), e si è affidato quasi interamente a una nuova piattaforma digitale sia per la stampa che per il pubblico. Le poche proiezioni in presenza, invece, sono avvenute in parte nei cinema consueti del festival (fra cui il moderno TIFF Bell Lightbox), ma anche in spazi immaginati o rivitalizzati per l’occasione, come il nuovo drive-in ricavato dal parcheggio adiacente alle isole artificiali dell’Ontario Place, gioiello architettonico modernista che include la Cinesphere, ovvero il primo IMAX permanente al mondo.
Come è facile immaginare, la qualità delle proposte non è stata fra le migliori, ma qualche pellicola è riuscita a distinguersi e a farsi amare. In questo momento di tremenda incertezza finanziaria, è impossibile non farsi commuovere da Nomadland (2020), Leone d’oro alla 77° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e People’s Choice Award a Toronto, che con chiarezza e sobrietà esplora un mondo troppo spesso sommerso dalla propaganda del supposto benessere statunitense, e in parte già illustrato da Gianfranco Rosi nel suo magistrale Below Sea Level (2008). Chloé Zhao dirige una Frances McDormand perfettamente in sintonia con il paesaggio americano, dai ghiacci del nord ai deserti del sud, che attraversa a bordo del suo furgoncino divenuto abitazione dopo aver perso tutto a causa della grande recessione che ha colpito il primo decennio del ventunesimo secolo. Mescolandosi a persone che realmente conducono vite nomadi, McDormand crea un personaggio laconico ma profondamente espressivo che ben si sposa al realismo cercato da Zhao, la quale nonostante la premessa quasi zavattiniana della vicenda si lascia però andare a momenti di pura contemplazione estetica di volti e panorami.
Molto toccante anche la nuova opera di Naomi Kawase, True Mothers (2020), che ritorna ad occuparsi esplicitamente del tema della maternità dopo i documentari Genpin (2010) e Birth/Mother (2006). Il cinema di Kawase è intriso di questioni generazionali che spesso emergono dalla biografia stessa della regista giapponese, come si apprende nel bellissimo trittico Embracing (1992), Katatsumori (1994) e Sky, Wind, Fire, Water, Earth (2001). La trama di True Mothers si poggia sull’adozione di un bimbo da parte di una coppia borghese che, nonostante i privilegi garantitole dallo status sociale, non può isolarsi dal dolore che la separazione dal figlio provoca alla madre biologica. Meno riuscito è invece Subarashikisekai (Under the Open Sky) di Miwa Nishikawa (2020), commedia drammatica che si propone di raccontare il difficile reinserimento nella società di un membro della yakuza dopo tredici anni di carcere. Nonostante l’evidente affetto per il personaggio, neanche lo splendido Yakusho Koji riesce a dare un senso alle contraddizioni tonali del film. Altra pellicola con una performance centrale solidissima è Druk (Another Round) del veterano danese Thomas Vinterberg, alla sua seconda collaborazione con Mads Mikkelsen dopo il fortunato Jagten (The Hunt, 2012). La premessa è semplice: un gruppo di amici di mezz’età cerca di trovare l’esatta misura di ubriachezza costante che li aiuti a far fronte al proverbiale logorio della vita moderna. Se da un lato l’esperimento gli fa scoprire risorse inesplorate, sul lungo andare causa il deterioramento di rapporti e l’inevitabile scontro con la realtà. Se questa descrizione può ricordare vagamente Chevalier (Athina Rachel Tsangari, 2015), l’esecuzione va in tutt’altra direzione, culminando in un finale che celebra, piuttosto che condannare, lo spirito delle lezioni imparate lungo il cammino e del prezzo di tale conoscenza. L’esplorazione della fragilità maschile di Vinterberg è umanizzante ed empatica, al contrario di molto nuovo cinema greco, i cui esperimenti con la sfera emotiva spesso si trasformano in crudeltà nei confronti dei personaggi. Non è questo il caso per il succinto Mila (Apples, 2020) dell’esordiente Christos Nikou, che viceversa cerca di aiutare il solitario Aris (Aris Servetalis) a ritrovare la memoria perduta a causa di una pandemia globale di amnesia grazie ad una serie di terapie basate sul riavvicinamento graduale alle emozioni. Rispettando il trauma sofferto da Aris, che rimane relativamente opaco allo spettatore, Nikou riesce sorprendentemente (e inavvertitamente) a dar vita al film simbolo del 2020, anno maledetto che proprio a causa di un’implacabile epidemia tanta sofferenza ha inferto al mondo.
Si è fatto notare anche il dramma familiare Lacci di Daniele Lucchetti (2020), che mette insieme passato e presente di una famiglia italiana al limite dello scioglimento, cucendo insieme momenti quotidiani e attimi di tensione, frustrazioni soffocate ed esplosioni imperdonabili. Bravi gli interpreti, sui quali spiccano i sempre impeccabili Alba Rohrwacher e Luigi Lo Cascio. Relativamente ben costruito anche Un triomphe (A Big Hit, 2020) di Emmanuel Courcol, che racconta la storia di una troupe teatrale di carcerati alle prese con Aspettando Godot. Basato su una storia vera, il film riesce per la maggior parte ad evitare di scivolare nello stereotipo, e riserva anche qualche sorpresa dal punto della costruzione dei personaggi. Lo stesso si può dire di Tove (2020) di Zaida Bergroth, già presente al festival nel 2019 con gli apprezzati Marian paratiisi (Maria’s Paradise) e nel 2017 con Miami. Nella sua nuova pellicola, forse la migliore delle tre, la regista finlandese racconta la nascita dei Moomin, creazione dell’autrice, pittrice, illustratrice e fumettista Tove Jansson. Senza nemmeno tentare di confezionare una biografia estesa della poliedrica artista, Bergroth si concentra sapientemente sul periodo a cavallo della realizzazione di The Moomins and the Great Flood (1945), il primo libro della serie per bambini, e l’incontro con la regista teatrale d’avanguardia Vivica Bandler, con la quale inizia una relazione sentimentale e professionale (Bandler adatta due storie dei Moomin per il teatro). Bravissime Alma Pöysti nel ruolo di Janssen e Krista Kosonen, già apprezzata in Miami, in quello di Bandler. Deludente invece il finlandese Gullregn (The Garden, 2020) dell’islandese Ragnar Bragason, film che sembra non capire che tono adottare (è una commedia nera? Un dramma domestico?), e che per la maggior parte resta rinchiuso in un appartamento soffocante quanto la protagonista, Indiana (Sigrún Edda Björnsdóttir), una donna che vive truffando il sistema assistenziale e che opprime il figlio adulto con attenzioni indesiderate e ricatti.
Notturno del maestro Gianfranco Rosi (2020) e Kitoboy (The Whaler Boy, 2020) del quasi esordiente Philipp Yuryev, indiscutibilmente i film più belli della rassegna, hanno in comune lo sguardo rispettosamente etnografico dei paesi descritti e il trattamento sotterraneo degli effetti travolgenti che hanno colonialismo e imperialismo su comunità troppo spesso dimenticate dai media. Molto è già stato detto sul monumentale film di Rosi, sia dai suoi detrattori che da chi, come me, l’ha apprezzato, troppo poco invece su quello di Yuryev, che rischia di passare inosservato in un anno in cui i grandi eventi cinematografici sono accaduti principalmente su streaming e hanno relegato piccole produzioni come questa in posizioni ancora più marginali. Kitoboy segue il giovane cacciatore di balene Leshka (Vladimir Onokhov) nella tana del Bianconiglio rappresentata dalla pornografia online proveniente (forse) dagli Stati Uniti. Dal suo villaggio marittimo in Russia, il ragazzo si propone di attraversare lo stretto di Bering su una piccola imbarcazione da pesca per raggiungere una camgirl “americana” (Kristina Asmus) per la quale nutre un desiderio ossessivo. Gli 84 chilometri di mare che separano la Čukotka dall’Alaska si trasformano in una odissea esistenziale che interseca tematiche vaste e complesse fra le quali vanno sottolineate la politica globale, il concetto di stato nazionale, il rapporto fra le superpotenze e le popolazioni indigene, e l’industria della caccia alla balena.
Ultima segnalazione è il divertente Shadow in the Cloud (Roseanne Liang, 2020), presentato nella categoria Midnight Madness, dove si trovano spesso i film horror e di fantascienza, e vincitore del Grolsch People’s Choice Award. Capitanato da una Chloë Grace Moretz in gran forma, il film espande e rivisita in chiave femminista il noto episodio Nightmare at 20,000 Feet (1963) di The Twilight Zone, trasportandolo indietro nel tempo fino alla seconda guerra mondiale. A suo agio nell’assurdità della trama e delle sequenze d’azione, il film regala qualche brivido, una risata, e soprattutto un attimo di agognata distrazione dalle troppe tristezze di questo anno disgraziato.