Provate ad immaginare una vecchia casa di pietra immersa nell’oscurità della foresta. Una terra al confine dove regna una cultura venata di animismo e arcaicità. Non è un mondo lontano o di immaginazione, ma è quello che il regista Gregor Božič ha scoperto nella zona transfrontaliera a nord dell’Italia, al confine friulano con la Slovenia. In quella vallata carica di realismo magico, ha girato Storie dai boschi di castagne per raccontare una realtà dimenticata e ricca di tradizioni e memorie. Il film, scritto da Božič e da Marina Gumzi e presentato in anteprima mondiale al 44o Toronto Film Festival, è un affresco senza tempo carico di incanto e magnetismo. In quelle vallate oggi sono rimasti pochi anziani che preservano una memoria antica, incontaminata, come la Natura che li circonda. Ambientato negli anni Cinquanta, Storie dai boschi di castagne mette in scena uomini, animali e piante per raccontare la vita nella valle del Natisone (Slavia Veneta), al confine italo-jugoslavo: una galassia arcaica, fiabesca, ricca di tradizioni popolari e riti secolari. Božič racconta la solitudine e i rimpianti di una vallata costretta a fare i conti con la miseria del dopoguerra e l’isolamento per l’indifferenza di due paesi impegnati in contese diplomatiche e tensioni politiche. I vecchi parlano un dialetto misto, distante dall’italiano e dallo sloveno standard. I giovani sono partiti per un nuovo mondo, per lasciarsi alle spalle uno spazio riluttante al cambiamento. Solo Mario, dopo aver vissuto un periodo in città, è tornato indietro, in quella valle ostile come il medico che non gli dà speranze per la moglie Dora malata di tubercolosi. Mario è un falegname rassegnato, intaglia ceste e lavora cassapanche, decora mobili in stile rinascimentale, conta e riconta i pochi risparmi mentre l’anziana moglie si spegne piano piano. Due vite insieme ma distanti, lontane come il figlio scomparso in guerra al quale Dora non ha mai potuto spedire le 47 lettere nascoste sotto il materasso: Mario sembra prenderne coscienza quando entra nei sogni della moglie e chiede ai tre cantori, tre creature sovrumane, di riportarla in vita anche sotto forma di animale. I rimpianti di Mario incontrano la solitudine di Marta, una giovane venditrice di castagne che cerca di fuggire dopo essere stata abbandonata dal marito emigrato in Belgio. Sarà proprio allora che Mario riesce a tirar fuori qualcosa dal cuore e decide di dare i suoi risparmi a Marta per il viaggio in Australia. Girato in modo fiabesco, questo primo lungometraggio di Gregor Božič – formatosi con il cinema di Paradžanov, Bertolucci e Fellini – nasce dalla ricerca di tradizioni orali e dai racconti di Čechov.
PB: Innanzitutto le vorrei chiedere come è nata l’idea del film e perché ha scelto di ambientare Storie dai boschi di castagne in quelle zone al confine?
GB: Sono zone che conoscevo da piccolo, anche perché distano una ventina di chilometri da dove sono nato: luoghi un po’ oscuri, abbandonati, che hanno sempre suscitato in me un grande interesse. Ci sono tornato nel 2012 per un progetto di salvaguardia su varietà di frutta antiche e autoctone nel Collio e durante la mia ricerca ho conosciuto alcune persone che ancora vivono in quei posti al confine. Ho parlato con una trentina di loro e ho raccolto diverse storie e leggende. Ovviamente la frutta è stato un buon pretesto per fargli aprire il cassetto dei ricordi (ho scritto anche un libro al proposito e sto realizzando un documentario sul mito della frutticoltura che una volta era molto importante e che si è perso completamente nel XX secolo). Certo, se fossi andato con la richiesta di intervistarli per realizzare un film non sarebbero stati così entusiasti di condividere le proprie memorie.
PB: C’e una storia che l’ha colpita in modo particolare?
GB: Non c’è stata una sola storia ma un cumulo di storie che poi alla fine mi hanno portato a comprendere un’emigrazione di massa, la sofferenza di una terra di confine dimenticata da tutti. I racconti di questi anziani che ancora vivono nella vallata mi hanno fatto ad aprire gli occhi su una società che non ha avuto la possibilità di una vita normale e che era destinata ad estinguersi: una triste realtà che ho voluto trasferire nel film.
PB: Una società di gente anziana che ancora oggi rifiuta il cambiamento e non vuole abbandonare la propria terra.
GB: Come dice anche il vecchio Mario, che diventa un po’ il simbolo di questo rifiuto del cambiamento. Nel film abbiamo voluto giocare con caricature fiabesche, con gli archetipi dei personaggi di una fiaba che rispecchia la realtà, per cui c’è il falegname tirchio che non vuole lasciare le proprie tradizioni; c’è una giovane castagnara che invece sogna un’altra vita. Personaggi che sembrano usciti da un libro di fiabe paesane. Il mio intento non era quello di agganciarmi a ricostruzioni psicologiche o a descrizioni di persone che sono veramente esistite, e attraverso questi archetipi ho cercato di tracciare una parabola con le tradizioni che hanno segnato la storia di questa vallata.
PB: I personaggi del suo film nascono dal lungo lavoro di ricerca delle tradizioni orali?
GB: Sono posti molto particolari che per la loro storia hanno agevolato la mia ricerca. In quella zona c’era una grande comunità di sloveni che viveva in Italia e parla un dialetto molto particolare, diverso da quello che noi abbiamo imparato in Slovenia: già questo mi sembrava un buon punto di partenza. Da qui l’idea di Mario, il falegname venuto in quei posti da una città che si pensa superiore proprio perché parla un italiano migliore degli altri. Attraverso certe piccole sfumature ho cercato di mostrare un universo di personaggi molto diversi fra loro che però alla fine sono uniti dallo stesso amaro destino.
PB: Nel dialogo tra Mario e il medico è racchiuso lo spirito del film, non solo quando il falegname dice “perché non riusciamo mai a tirar fuori qualcosa dal cuore?”, ma anche quando, riferendosi alla moglie, pronuncia la frase: “anche un insetto vorrebbe vivere il più possibile”. Anche qui vuole sottolineare l’ineluttabilità del destino?
GB: L’ispirazione arriva da alcuni racconti brevi di Čechov, come tante altre cose inserite nel film: le frasi non sono esattamente le stesse ma lo spirito che abbiamo cercato di trasmettere attraverso alcuni dialoghi è sicuramente prestato da Čechov e rispecchia perfettamente quanto volevamo mostrare. Aggiungerei anche la frase che il medico dice a Mario: ‘Lei vorrebbe qualcosa dal cuore ma non fa per noi, non è per gente come noi, forse tra centanni, quando ci saranno le condizioni migliori, ma non adesso’. È vero, queste frasi racchiudono lo spirito del film e rappresentano il sentimento che si prova andando in quei posti di confine dove si percepisce che qualcosa nel passato ha preso la vita della gente costringendo i giovani ad abbandonare la propria terra. Sono dialoghi che potrebbero adattarsi a tutti quei posti ancora oggi dimenticati.
PB: Posti dimenticati che vivono di memorie e tradizioni e che nel suo film rappresenta anche attraverso ambientazioni oniriche e favolistiche, come nel caso dei tre cantori, di cui uno con la pelle d’orso, che ballano sul letto di morte della moglie di Mario. Questi personaggi hanno a che fare con leggende locali o sono anche loro presi da Čechov?
GB: L’ispirazione nasce da un racconto di Čechov in cui una anziana sul letto di morte immagina una festa per il suo compleanno. Siamo poi andati alla ricerca di alcuni rituali di quelle valli e ne abbiamo scovato uno che si chiamava Koleda, una tradizione pre-natalizia in cui i bambini si vestivano da re (in pratica i re magi) o da creature animali e bussavano alle porte per chiedere doni. Da lì l’idea di mettere in scena i tre personaggi che portano un po’ di vita in questa società molto triste, incluso un orso che suona il contrabbasso preso da un vecchio dipinto che abbiamo scovato sul muro di una casa durante i sopralluoghi per le riprese.
PB: Possiamo parlare di una cultura popolare animista?
GB: Direi proprio di sì. La gente di quelle vallate viveva in stretto contatto con i boschi dove sono ambientate tutte queste storie di animali che cambiavano forma, alcuni erano metà pavone e metà coniglio, creature fantastiche chiamate Cufulins che hanno sempre fatto parte delle loro leggende locali. Una tradizione orale legata alla natura e agli animali, per questo nel film l’ambiente con i suoi paesaggi è uno dei personaggi principali: gli alberi, i colori, a volte trasmettono più delle stesse persone.
PB: Lo definirebbe un film spirituale?
GB: La sua definizione di realismo magico è giusta, forse meno realista e più fiabesco. Spirituale senz’altro perché parla della vita anche dopo la morte, nel senso che il confine fra le narrazioni realmente accadute e quelle che non sono vere è molto sottile nel film: per questo abbiamo cercato di raffigurare alcune scene come un grande sogno.
PB: Una ritualità magico-animista che ricorda Le quattro volte di Michelangelo Frammartino: c’è qualche vicinanza stilistica, oltre che tematica, oppure i suoi punti di riferimento sono altri?
GB: Sicuramente si può fare un parallelo con Le quattro volte anche perché il film parla di posti molto simili, però non parlerei di vicinanza stilistica con Frammartino. Mi sento più vicino al cinema di Sergej Iosifovič Paradžanov, il regista armeno de Il colore del melograno (il biopic di Sayat-Nova, poeta armeno del XVIII secolo, ndr). Considero Paradžanov un genio perché il suo cinema riesce a comunicare con immagini statiche, evocazioni visuali fortemente suggestive. La mia formazione è anche legata al cinema di Federico Fellini e Bernardo Bertolucci nella loro fase iniziale: la prima metà de Il Conformista e 8 e mezzo perché racconta una non-storia in un modo complesso e profondo. Due capolavori per il ritmo nelle composizioni, per come i registi usano il linguaggio e l’estetica del cinema. Anche Strategia del ragno di Bertolucci è un film molto interessante da questo punto di vista perché ci fa capire che il racconto di una storia è anche forma. Concetti che ho approfondito prima di mettermi dietro la macchina da presa.
PB: Una delle scene del suo film racconta di due ragazze che sognano il principe azzurro e un’altra vita sfogliando le pagine di un vecchio numero di Grand Hotel che ha nella copertina un’immagine di Massimo Girotti e Sandra Milo. È un omaggio a qualcuno?
GB: A mia nonna. Lei era di quei posti, nella parte slovena, e rivive un po’ in queste due ragazze che parlano sul carro e che vorrebbero andare a Milano. Come tanta gente, anche mia nonna ha dovuto lasciare la sua terra molto presto e a 12 anni si è ritrovata a Roma a lavorare come donna delle pulizie. La ricordo anziana, trascorreva il tempo leggendo Grand Hotel e così ho voluto inserire questa scena nel mio film dopo aver scovato un numero dell’epoca in un vecchio mercatino.