A Hidden Life (Terrence Malick, 2019)
Il traditore (Marco Bellocchio, 2019)
Maria’s Paradise (Marian paratiisi, Zaida Bergroth, 2019)
While at War (Mientras dure la guerra, Alejandro Amenábar, 2019)
Spesso destinato al fallimento dal punto di vista strettamente artistico, il film biografico resta uno dei generi più apprezzati dal pubblico e dalle giurie di festival in tutto il mondo. Nella storia dell’Academy Award, almeno diciassette statuette di Best Picture sono state consegnate a film basati su individui o gruppi di persone realmente esistiti. I titoli di Best Actor e Best Actress sono quasi sempre assegnati ad interpreti che si calano nei panni di personaggi storici, musicisti, atleti, monarchi, e via dicendo. Raramente però i prodotti sono all’altezza della storia che si prefiggono di ritrarre, limitandosi ad offrire una piattaforma per performance istrioniche e fastidiosamente gigionesche. Fra i film più belli visti alla 44esima edizione del festival internazionale del cinema di Toronto si collocano due straordinarie eccezioni a questa regola, a riprova che il film biografico può essere veicolo di poetiche raffinatissime e di messaggi politici esplosivi. Il primo esempio è il monumentale A Hidden Life (2019), nono lungometraggio del maestro americano Terrence Malick, che con questa estesa meditazione nei recessi dell’animo umano riconferma di essere uno dei più grandi filosofi del cinema viventi. Basato sulla biografia di Franz Jägerstätter (August Diehl), obiettore di coscienza austriaco che si rifiuta di combattere a fianco dei nazisti durante la seconda guerra mondiale, il film si dipana lentamente e metodicamente per quasi tre ore, tuffandosi nell’intimità turbata ma risoluta di un uomo semplice mentre si interroga sulla natura del bene e del male, sulla libertà di scegliere come vivere e come morire in un mondo che sembra essere disceso in un abisso da cui non sa come risalire se non attraverso l’autodistruzione. Come sempre nel cinema di Malick, la comunione dei personaggi con il divino e con il resto dell’umanità avviene attraverso la contemplazione della natura, celebrata dalla macchina da presa costantemente in movimento di Jörg Widmer, già collaboratore del regista texano sin dal fortunato The Tree of Life (2011). Memorabili anche le interpretazioni dei compianti Michael Nyqvist, qui alla sua ultima apparizione, e del grande Bruno Ganz nel ruolo del tormentato giudice Lueben.
L’altro film biografico di pregio è il riuscitissimo Il traditore di Marco Bellocchio (2019), felice esempio di solido cinema politico in tempi in cui la politica si è fatta fragile reality televisivo. In una performance di grande intelligenza e moderazione, Pierfrancesco Favino si trasforma nel mafioso Tommaso Buscetta durante gli anni della sua collaborazione con la giustizia, ritraendone le contraddizioni e le fragilità, senza mai però sconfinare in una simpatia che sarebbe, in questo caso, gravemente mal riposta. Bellocchio si poggia sulla tradizione (vengono alla mente il cinema documentato di Francesco Rosi e lo sguardo dall’interno della criminalità di Martin Scorsese) per guardare avanti, confezionando un film allo stesso tempo classico e contemporaneo, pronto a turbare lo spettatore con guizzi improvvisi di violenza, utilizzando materiale d’archivio con autorevolezza e serietà, marciando attraverso il periodo buio della lotta contro la mafia e degli attentati con passo sicuro e fronte ben alta.
Intrigante anche Maria’s Paradise (Marian paratiisi, 2019), biografia di Maria Åkerblom (Pihla Viitala) diretta da Zaida Bergroth, già presente al festival nel 2017 con l’interessante Miami. Insieme al compagno Eino R. Wartiovaara (Tommi Korpela), la carismatica predicatrice Åkerblom (1898-1981) fonda una setta da lei presieduta, circondandosi di adepti disposti ad infrangere la legge per difendere la loro leader dalle minacce del mondo esterno, fra cui la chiesa luterana e la giustizia finlandese. Raccontata attraverso il punto di vista della giovane recluta Salomè (Satu Tuuli Karhu), la storia di Maria Åkerblom è fitta di ambiguità e misteri, di colpi di scena e di momenti anche troppo simili alla realtà odierna, di cui il film si fa ostentatamente metafora. Bravissima Pihla Viitala nel ruolo della profeta invasata e calcolatrice, santona alcolizzata sempre sull’orlo dell’epifania. Come già in Miami, che era incentrato sul rapporto fra due sorelle, Bergroth è al suo meglio quando si concentra sui dettagli delle relazioni interpersonali fra donne diverse che scelgono di svelarsi solo parzialmente.
Se l’ambiguità è l’elemento accattivante di Maria’s Paradise, il ritratto di Miguel de Unamuno (Karra Elejalde) diretto da Alejandro Amenábar è una forte delusione proprio per il maldestro tentativo di spiegare la storia. While at War (Mientras dure la guerra, 2019) si propone di investigare la crisi di coscienza dello scrittore, che prima sostenne e poi condannò il fronte nazionalista durante la guerra civile spagnola, e di farsi così appello alla classe intellettuale contemporanea nella lotta al populismo. Il risultato è un film che, nel voler mettere in risalto la difficoltà della militanza politica in tempi di fervore campanilista, si poggia su stereotipi e cliché che non riescono a costituirsi in una narrazione convincente. Il materiale resta confuso, il tono oscillante fra dramma e commedia, le interpretazioni dissonanti fra loro. La strategia è la stessa di Malick, Bellocchio e Bergroth, ovvero parlare per passato per comprendere meglio il presente, ma a differenza dei suoi colleghi, Amenábar sembra non aver capito come dipanare la matassa del film biografico contemporaneo