CARTOLINA DAL TORONTO FILM FESTIVAL 2019/ 3 – Intervista alla regista Chiara Malta

Simple Women è un metafilm nato da una lunga conversazione tra la regista Chiara Malta e una delle protagoniste, Elina Löwensohn, un’attrice underground che, svelando la sua vera identità, esce dall’immaginario e si cala nella sceneggiatura. Nel film, come in un gioco di specchi, tutti diventano complici: le protagoniste cercano di capire quanto ci sia di vero in una proiezione mentale; il pubblico si interroga su cosa si celi dietro un’icona astratta; la regista riflette sulla natura del linguaggio cinematografico. Un racconto per immagini con tante domande e una risposta aperta che non svela il confine tra memoria e fantasia. Dostoevskij diceva che la verità autentica è sempre inverosimile e per renderla credibile bisogna mescolarvi un po’ di menzogna. In Simple Women la realtà viene alterata dalle illusioni e i sogni ingannati dalla verità. La simmetria acquista in questo film un valore anche estetico con inquadrature mirate all’intensità di due universi che entrano in relazione, si scontrano, si perdono e si ritrovano. Un film in cui uno dei soggetti è il cinema stesso che la regista racconta passando per Truffaut, con un occhio a Bergman, Fellini e Fosse.

Primo lungometraggio per Chiara Malta, Simple Women è stato presentato in anteprima mondiale al 44o Toronto International Film Festival. La sua passione per il cinema nasce con Le Bonheur di Agnès Varda e tra i suoi riferimenti è entrata di diritto Lina Wertmüller con Storia d’amore e d’anarchia. Dopo aver recitato ne La Sapienza di Eugène Green durante il periodo dell’accademia a Villa Medici, la regista italiana di base a Parigi si dedica ad un cinema che sperimenta l’arte visiva e i linguaggi creativi agganciandoli a elementi autobiografici. I suoi tratti si riconoscono sin dagli esordi con Aspettandoti/En t’attendant e L’isle. È del 2008 il documentario Armando e la politica seguito dal corto J’attends une femme (2010) e Les Yeux du Renard (2012) co-diretto con Sebastien Laudenbach che ha anche collaborato, con Chiara Malta e Marco Pettenello, alla sceneggiatura di Simple Women.

Le due protagoniste di questo lungometraggio, che a Toronto ha aperto la sezione Discovery, sono Elina Löwensohn, diventata famosa negli anni Novanta con Simple Men di Hal Hartley per poi lavorare con Julian Schnabel, Michael Almereyda, Philippe Grandrieux, Valérie Donzelli e Steven Spielberg in Schindler’s List; e Jasmine Trinca che ha all’attivo oltre venti film diretti da Nanni Moretti, Marco Tullio Giordana, Michele Placido, i fratelli Taviani, Paolo Genovese, Sergio Castellitto (con Fortunata ha vinto un David di Donatello e un Nastro d’argento), Ferzan Ozpetek con il quale ha appena finito di girare La dea fortuna.

Simple Women di Chiara Malta – prodotto da Vivo Film con Rai Cinema – è stato girato in appena quattro settimane e mezzo ma ha alle spalle una lunghissima preparazione di oltre cinque anni di revisioni di sceneggiatura. Elina Löwensohn è l’idolo di infanzia di una regista senza esperienza, Federica (Jasmine Trinca), alter ego della stessa Chiara Malta. In questo puzzle di identità, Federica imbraccia la cinepresa per girare un biopic a basso budget interpretato da Elina, protagonista del cult Simple Men. L’epilessia è il trait d’union tra queste due donne, una rumena e una romana, diverse ma entrambe con una forte volontà dettata dall’esigenza di penetrare dietro lo specchio, come Alice, per scoprire se il mondo riflesso è quello della vita. Federica è considerata sin da piccola una “ragazzina un po’ strana”, come quando ha un attacco epilettico mentre in televisione, il giorno di Natale del 1989, va in onda l’esecuzione di Nicolae Ceaușescu: un “dittatore come Mussolini, come Giulio Cesare”. Ha soli 15 anni e il mito di Elina Löwensohn. In camera campeggia il poster del film di Hal Hartley che ha visto molte volte al cinema, anche con la sua amica Nicoletta. Il suo idolo la accompagnerà per tutta l’adolescenza e la porterà a studiare da regista. Trent’anni dopo Federica incontrerà casualmente Elina e si ritroverà in una Bucarest innevata e fredda a girare un film su questa attrice che in realtà non è americana, come credeva.

Quando il medico che la teneva in cura da piccola le fa il test di fotosensibilità, Federica riesce a comprendere quanto di vero c’è in Elina, la regina delle bugie e quanto di falso c’è nell’immagine che si era costruita. È come un cortocircuito. Federica demistifica Elina, capisce che nella realtà non ha niente dell’attrice di Simple Men, si rende conto che l’amicizia è solo un barlume della sua ossessione adolescenziale, per cui “il progetto non ha più senso. È tutto nella tua testa”. Realtà e finzione vengono alterate in tutto il film e una delle scene-chiave è nella doppia immagine di Federica e Elina riflessa nello specchio rotto nella vasca da bagno. Entrambe cercano di rimettere insieme i pezzi, ma non ci riescono, come spiega in questa intervista la regista Chiara Malta.

CM: La scena contiene la magia, e io volevo fosse presente; il mistero, infatti i due volti non sono completamente leggibili. Non volevo che ci fosse una conclusione definitiva né una totale visibilità della storia perché non si sa dove inizia la frontiera del vero e quella del falso. C’è un momento in cui Federica è veramente folgorata da Elina e Elina diventa l’altra: il mio compito era quello di separarle per poi eventualmente farle ritrovare.

PB: Ci sono diverse scene speculari, inclusa quella in cui Federica spacca la porta vetrata del cinema.

CM: Quando Federica e Elina si guardano attraverso la porta vetrata è come se si guardassero allo specchio. Federica ha una visione e se ne deve liberare, per cui spacca la porta vetrata. Volevo che questa rottura fosse un gesto di liberazione. Non so se alla fine ho riparato, diciamo che la ferita resta aperta, ma per me questa è la verità della vita.

PB: Specularità di ruoli e di rapporti in una simbiosi emotiva che scatta con una crisi epilettica.

CM: In realtà è quello che accade quando abbiamo un mito, un idolo. Mentre lavoravo alla sceneggiatura cercavo qualcosa che stabilisse un contatto intimo tra queste due donne per raccontare anche il rapporto che si crea con un idolo. Volevo raccontare qualcosa di profondo e far capire allo spettatore che Federica l’aveva proprio fabbricato questo suo idolo e non solo con dei poster in una stanza. Nel film di Hal Hartley c’è una scena in cui Elina Löwensohn ha una crisi epilettica e quindi l’ho utilizzata proprio per unire queste due donne in modo intimo, personale, anche perché Elina non è Marylin Monroe.

PB: Perché ha deciso di far capire che Federica è epilettica con l’esecuzione di Ceaușescu?

CM: Quando ho iniziato a scrivere il film, non ero mai stata in Romania ma l’esecuzione di Ceaușescu era un’immagine rimasta nella mente e che ha segnato un’intera generazione, per cui ho pensato di creare questa connessione: Elina non è un’attrice americana, è rumena, e quindi l’unica possibilità di mettere in contatto una ragazzina romana di 15 anni con la Romania era l’esecuzione di Ceaușescu in tv.

PB: In questo puzzle introspettivo, Elina e Federica si confrontano spesso per capire che cosa c’è dietro allo specchio della loro immagine o delle loro proiezioni.

CM: Io non volevo fare un film complicato. Mi rendo conto che per dare un’idea della complessità, dell’intensità e della difficoltà che abbiamo nei rapporti umani, questo gioco di puzzle è servito un po’ anche per far perdere la partita allo spettatore. Ma al di là di questo, il mio obiettivo era quello di far capire che quando la ragazzina Federica si è inventata un idolo non sapeva che in realtà dietro lo schermo c’era lei e tutte le sue proiezioni, tutte le sue visioni. La mia idea era quella di far andare una fan dietro la macchina da presa per capire cosa c’è dietro questa immagine così idolatrata.

PB: Un film nel film: fra i suoi modelli ci sono anche François Truffaut con La Nuit Américaine e Fellini con 8½?

CM: Ho pensato molte volte a La Nuit Américaine soprattutto quando con il direttore della fotografia cercavamo di capire come raccontare la cinepresa di Federica. Diciamo che questo era più un problema di immagine perché non volevo fosse mostrata sempre allo stesso modo: in una scena del film faccio uno zoom indietro e si vede che la scena è del film dell’altra non del mio. Ricordo che eravamo andati a vedere La Nuit Américaine proprio per capire come raccontare il film nel film. Nella mia mente c’erano comunque tre film che dialogavano come messaggi tra di loro: All That Jazz di Bob Fosse, di Federico Fellini e Persona di Ingmar Bergman. Film molto diversi fra di loro che parlano di identità, di creazione, di crisi. Non credo che Federica sia una regista in crisi creativa, anche se come tutti i registi ha diverse difficoltà: la sua confusione è legata al mistero-Elina, talmente sfuggente da non permetterle di concentrarsi sul film.

PB: Fosse, Fellini e Bergman: che cosa ha preso da questi tre grandi registi?

CM: Non so se ho preso deliberatamente qualcosa, a parte che non l’avrei mai fatto perché sono troppo grandi. Da un artista come Michelangelo che cosa prendi? Niente: esiste. Fosse, Fellini e Bergman sono per me dei giganti, però credo che in qualche modo mi abbiano influenzata. Diciamo che erano intorno a me.

PB: Quando si parla di metacinema è inevitabile la ricerca degli accenni personali: quanto c’è di autobiografico in questo suo film?

CM: A 15 anni non conoscevo Hal Hartley, quando è morto Ceaușescu non ho avuto una crisi epilettica, ci sono alcuni dati di questa storia che sono inventati, però è chiaro che c’è un po’ di me nel film e un po’ di Elina Löwensohn questo sì, perché il personaggio di Federica è nato quando ho conosciuto Elina che si è aperta e mi ha raccontato le sue storie di vita che poi ho trasformato e reinventato.

La storia di Elina Löwensohn è stata il canovaccio della sceneggiatura: quale episodio particolare l’ha spinta a realizzare Simple Women?

Sono partita dai fatti, quindi ore e ore di registrazione sulla vita di questa donna dall’infanzia a Bucarest alla sua carriera negli Stati Uniti: da lì ho costruito il film basando la parte centrale su un fatto che per me era di grande interesse, e cioè che lei non è un’attrice americana. Quando Elina Löwensohn mi ha detto “non sono chi tu credi che io sia”, ho cominciato a costruire il mio film. Quella frase conteneva la negazione, gli idoli, la verità, la menzogna e ho costruito il film proprio su questi elementi. Per i personaggi delle due protagoniste, invece, mi sono soffermata su alcuni momenti della vita di Elina ai quali lei prestava meno attenzione di me.

Ad un certo punto Elina grida a Federica: “ti ho dato la mia vita e tu non hai fatto nulla”: è il momento della verità o dobbiamo interpretare questa frase in un altro modo?

Nella scena in cui vanno a vedere un film anonimo con “no action, no character”, le protagoniste dialogano con il mio film perché a un certo punto non c’è più azione e non ci sono nemmeno più i personaggi in quanto la regista si trova da sola. Quando Elina dice quella frase è come se il film chiedesse allo spettatore di fare un bilancio. Per me questo momento è anche la morale della storia, un modo di fare un passo indietro rispetto a certe questioni che sembrano così importanti ma che in realtà possono anche essere leggere. Quanto c’è di vero in un rapporto e quanto di costruito nella mia mente? Qualcuno potrebbe pensare che alla fine io sono scappata dall’uscita di sicurezza per evitare di dare una conclusione al film. Può darsi. Però mi sembra una posizione interessante quella di non voler dare per forza delle risposte a queste persone che stanno vivendo momenti difficili. E poi, forse, nemmeno ce l’hanno una risposta. La questione del vero e del falso per me è un territorio immenso, un generatore di idee sul quale si potrebbero fare mille film.

In Simple Women ha inserito diversi elementi di superstizione come lo specchio rotto, Federica che va dalla maga, la cartomante che legge la mano a Elina: siamo nella zona della realtà o dell’immaginazione?

In questo gioco di specchi, di puzzle, di caos di identità, di vero e di falso, ho voluto inserire la storia della zingara e dei tarocchi che è pura fantasia. Oltre alla ragione c’è il mondo esoterico e quindi mi sembrava pertinente nel caso del film.

Concludiamo con un particolare: come mai ha scelto di girare la scena in cui Federica spacca la porta vetrata nel Cinema Nuovo Sacher?

Un po’ mi divertiva proprio per questa idea di vita e imitazione della vita, di somiglianza e falsa somiglianza, di contaminazione della menzogna. Jasmine Trinca per interpretare il personaggio della regista Federica, vedendomi al lavoro ha preso i miei tratti fondamentali e caratteristici. Con il Nuovo Sacher mi sembrava di inserire qualcosa che dialogasse con la sua vera attività di attrice dal momento che il cinema appartiene a Nanni Moretti e Jasmine ha iniziato a fare cinema proprio con Moretti. Inoltre, c’era forse anche la volontà di stare un po’ a casa, e per casa intendo i luoghi in cui io mi sento bene.