L’instancabile Juliette Binoche è presente al festival di Toronto con due film in cui, curiosamente, interpreta una scienziata impegnata in ricerche quasi senza speranza. Nell’atteso High Life, debutto nel genere fantascientifico e primo film in lingua inglese della grande regista francese Claire Denis, Binoche si cimenta, con metodi a dir poco discutibili, nella fecondazione artificiale delle sue compagne di viaggio a bordo di un’astronave diretta verso un buco nero. Denis sceglie una narrazione ellittica, enigmatica, che si sofferma sui dettagli della vita in un vascello astrale dal design scarno e minimalista come il suo film: fluidi corporei, ricordi, e angoscia si fondono in questa missione ai limiti del possibile che grava sulle spalle del laconico protagonista Monte (Robert Pattinson). Il modello è chiaramente Solaris (Andrei Tarkovsky, 1972), con echi dell’incipit di Don’t Look Now (Nicholas Roeg, 1973) e della prima ora di Sunshine (Danny Boyle, 2007), a cui si mescolano riferimenti molto diretti alle esplorazioni corporee del Cremaster Cycle di Matthew Barney (1994-2002).
Il colonialismo di Denis, spintosi qui oltre i confini del globo terrestre, rima con l’ecocinema di Naomi Kawase, alla ricerca di equilibri fra esseri umani e natura nell’etereo Vision (2018). L’attrice francese interpreta una botanica che si reca in Giappone per trovare un’erba leggendaria le cui spore germinano una volta ogni mille anni, ed inizia una relazione con il taciturno Satoshi (Masatoshi Nagase), che a modo suo custodisce la preziosa foresta di Nara. Entrambi i film convergono su questioni esistenziali e ambientaliste, esplorandole in relazione alla sessualità dei personaggi.
Lo stile tipicamente diafano di Kawase si ritrova anche in quest’opera, che prosegue l’investigazione dei temi cari alla regista giapponese fra cui il rapporto fra il corpo, l’anima, e l’ambiente (The Mourning Forest, 2007), la capacità di vedere e sentire sia emotivamente che fisicamente (Radiance, 2017), e le relazioni ancestrali (Katatsumori, 1994).
Il canadese Les Salopes or the Naturally Wanton Pleasure of Skin (Renée Beaulieu, 2018) integra la discussione presente in queste pellicole molto diverse ma singolarmente complementari presentandone il lato più politico e recente, cioè facendo riferimento agli scandali che hanno portato alla luce una serie di comportamenti sessuali al limite della legalità in alcune università e ambienti intellettuali canadesi. La protagonista è Marie-Claire (una straordinaria Brigitte Poupart), professoressa di dermatologia il cui progetto di ricerca esamina come le cellule della pelle umana rispondono al desiderio e al sesso. La situazione precipita quando il marito Vincent (Adam Santerre) viene a conoscenza delle numerose relazioni extraconiugali intrattenute dalla moglie, nonostante la comune decisione di mantenere la coppia aperta. Piccola gemma del cinema quebecchese, Les Salopes si propone di rappresentare la sessualità femminile come soggetto, non come oggetto, raccontandola con polso sicuro e senza temere di essere adeguatamente sovversivo e complesso.
Le riflessioni su responsabilità e mor(t)alità di Beaulieu, già emerse nel meno fortunato Le Garagiste (2015), lungometraggio d’esordio della regista e accademica quebecchese, si accostano e armonizzano con la ricerca della protagonista del tedesco Styx (Wolfgang Fischer, 2018), che si svolge in mare aperto. Impegnata in una crociera solitaria da Gibilterra alla piccola isola dell’Ascensione nell’oceano Atlantico meridionale, la dottoressa Rieke (Susanne Wolff) si imbatte in un barcone di profughi. Il viaggio di piacere si trasforma rapidamente in una missione di soccorso che testa i limiti morali e fisici della donna, che si ritrova a combattere contro l’inefficienza e la crudeltà di un mondo che preferisce ignorare la sofferenza altrui piuttosto che doversene fare carico. Il determinismo della narrazione e l’ambientazione marittima ricordano vagamente All is Lost (J.C. Chandor, 2013), ma Susanne Wolff emerge vincitrice nel confronto con il granitico Robert Redford, interpretando la risoluta dottoressa con fisicità e convinzione.
Ricapitolando, nel 2018 il festival canadese è quindi ricco di donne coraggiose, brillanti, forti, complesse, che si avventurano in spazi inesplorati, inoltrandosi nei recessi di mondi tangibili e mitologici nel nome della conoscenza, dell’accrescimento culturale, della spiritualità, e della sessualità. La posta in gioco è altissima, sia per le singole pellicole che per il cinema commerciale in generale, e in tutti i casi elencati il destino del genere umano in senso figurato (Vision, Les Salopes) e letterale (High Life, Styx) dipende dalle azioni di queste donne. Protagoniste di titoli che rispecchiano i punti di vista, gli stili, e le eterogenee carriere delle registe (ad eccezione di Styx, l’unico fra i film elencati ad essere stato diretto da un uomo). Film che vanno premiati al botteghino per sostenere le prospettive originali che offrono, e per godersi qualche ora di cinema emozionante ed intelligente.