CARTOLINA DA TORONTO 48 – INTERVISTA AD ALAIN PARRONI

Reduce dal successo veneziano, dove il suo lungometraggio d’esordio Una sterminata domenica (rimando alla perfetta recensione di Lara Casirati) ha ricevuto il premio speciale della giuria Orizzonti e il premio FIPRESCI, il regista Alain Perroni ha presentato la sua fatica anche a Toronto. Lo abbiamo incontrato per una piacevole chiacchierata che ha spaziato dal cinema alla cultura visiva, dai festival internazionali al futuro.

AP: Siamo un po’ rintronati perché siamo arrivati direttamente da Venezia, la notte dopo la premiazione, quindi ancora non ho capito che giorno è, dove siamo, e che stiamo facendo…

AZ: È la prima volta a Toronto? Benvenuto!
AP: Grazie, è molto molto bello! C’è tutta un’altra dimensione proprio di approccio al cinema. Poi, venendo appunto dal festival di Venezia dove è tutto un po’ formale, qua finalmente c’è un po’ di contatto col pubblico, con le persone, c’è un po’ di dialogo. È molto bello.

AZ: Sì, è un festival molto sportivo, dal mio punto di vista. Venezia è molto formale. Io sono veneziano, ma l’ultima mostra del cinema che ho frequentato da cronista è stata nel 2002… Innanzitutto congratulazioni per i premi e per il film, che mi è piaciuto molto. Mi dispiace di non essere riuscito a vedere i tuoi cortometraggi, ma non sono riuscito a reperirli…
AP: Diciamo sinceramente che è un cortometraggio solo, quello che è stato Venezia 6 anni fa (Adavede). L’altro è più un esercizio scolastico. Quello (Adavede) invece è proprio prodotto da me, voluto insomma…

AZ: Partiamo dall’inizio. Partiamo da come è nata l’idea di questo film (Una sterminata domenica)
AP: Diciamo nasce principalmente da quando ho finito tutti gli studi, quindi finisci l’accademia, finisci le scuole, finisci tutte le cose canoniche e ti trovi proprio in quel vuoto in cui dici “che devo fare del futuro?” Non lo so! Io ho fatto il propedeutico dal Centro Sperimentale e non m’hanno preso, sono arrivato settimo. Però ho conosciuto Giorgio che stava in produzione, che è uno dei produttori del film, e se fossi entrato questo film sarebbe diventato il corto. Quando fai il propedeutico ti dicono “comincio a pensare a un corto se magari dovessi entrare”, ma non sono non sono entrato e quell’idea che era solo una nota vocale di frustrazione e di non saper che fare in futuro è diventato qualcosa che si alimentava il giorno dopo giorno. E quindi mi ha anche un po’ sbloccato nel riflettere sul cinema stesso. Quando fai le scuole di cinema sembra subito che ci sia un cinema giusto e uno sbagliato, non capendo che dietro ogni opera c’è sempre la visione di qualcuno, anche nel film più commerciale comunque c’è qualcuno che è stato educato con quel linguaggio che riporta poi la realtà con quel linguaggio. Quindi il mio film nasce subito dopo le scuole, alimentato un po’ da questa frustrazione, ma anche dalla curiosità verso il linguaggio, verso it capire che farne del cinema, perché fino a quel momento doveva essere il mio mestiere, e invece in quel momento c’è stata un po’ una rottura verso il rapporto col cinema. Però mi sono detto “possiamo farne altro, possiamo un attimo giocarci”, non è una cosa così formale, intoccabile o sacra. È un qualcosa che ci appartiene, insomma che ci ha cresciuto. Poi il film è ambientato in campagna dove io sono cresciuto, a sud di Roma. È provincia, non tanto periferia con i palazzoni, ma più provincia, più un luogo veramente lasciato al nulla, e poi la provincia in tutti le parti del mondo l’ho sempre trovata abbastanza simile. Vicina alla grande città c’è sempre quel vuoto interessante. Quindi ho cominciato un po’ a cavalcare sia l’ambiente in cui ero cresciuto e un po’ quello che m’ha cresciuto fino a quel momento, che era il cinema. Ho cercato di far dialogare un po’ le due realtà che mi avevano cresciuto.

AZ: È infatti un tipo di film universale. Ovvero, è un film locale, però potrebbe essere qualsiasi campagna in relazione a qualsiasi città. Io che sono veneziano, cresciuto in città, con le campagne abbiamo lo stesso rapporto.
AP: Sì, sì. Nel momento in cui non riuscivo a far partire il film (con Antonio ci abbiamo messo cinque anni per per far partire la produzione, che tra una cosa e l’altra è durata circa due anni), ho girato un sacco di realtà, sono stato in Giappone, sono stato in Mauritania, sono stato in tanti posti totalmente diversi, e quello di cui mi accorgevo è proprio quello che dici te, cioè che c’era questo rapporto con la città veramente come se fosse un luna park, un qualcosa che veramente ti sembra anche che ti appartenga in qualche modo. Poi Roma ha un rapporto col tempo che è particolare. Quando ci vai da piccolo sembra che il Colosseo ti appartenga, ti relazioni per forza di cose (anche con Venezia). Quella cosa fa parte del tuo tessuto più profondo, e quindi c’è questo dialogo col tempo quando vai in una grande città che ha tanta storia, che magari può anche schiacciati quando sei piccolo. Sui social vedi tutti che dicono “io mi voglio affermare, mi voglio affermare”, e poi vai in una città come Roma e c’è anche tutto il peso della storia, e ti chiedi “ ma io non farò mai qualcosa, riuscirò mai a lasciare una traccia di me?” Quindi son contento che mi dici questa cosa dell’universalità, perché è un qualcosa che mi spaventava nel portare un soggetto così, ambientato a Roma, che venisse subito visto come il film della periferia romana. Non è così. In realtà non è che sono andato a fare ricerca nella periferia romana, è la cosa che mi sembrava più vicina perché ci sono cresciuto. Se fossi cresciuto, appunto, nella provincia di Venezia l’avrei ambientato lì, ma era solo per avere un rapporto più diretto, non è che volevo fare la ricerca pasoliniana… Anzi forse era pure un po’ per riscattare tanti film che sono stati fatti dal punto di vista esterno, invece io ero un giovane adolescente di quel mondo lì…

AZ: È un po’ anche quasi una posizione classicheggiante. Si inserisce nella tradizione del film sul rapporto campagna-città, o comunque provincia, ma non periferia, che è diverso. La provincia e la città. È un tema esplorato molto dal cinema, da Murnau (Aurora) a Terra madre di Blasetti, però proprio per quello che è un tema inesauribile. Lo puoi prendere e trapiantare altrove e puoi analizzare altre realtà, puoi farne un film in costume, puoi farne un film ambientato oggi, è una tensione che continua a essere fertile.
AP: Quando sento magari dei giudizi superficiali in cui si attaccano al disagio della periferia… In realtà l’idea era quella, appunto come dici te, di portare invece l’universalità che appartiene ad altro. Infatti non abbiamo inserito in sceneggiatura droghe o cose che potessero scagionare o puntare il dito verso i ragazzi contemporanei… Non si può dire “vedi, sono così perché si drogano”… Invece era tenere, anche nella storia, qualcosa che fosse estremamente leggero e piccolo, un triangolo amoroso, il rapporto fra tre amici, qualcosa che fosse appunto quasi epico, antico. Una cosa che fosse riconoscibile, sia dieci anni fa che fra dieci anni. L’idea era di creare un dialogo col tempo. Quello che penso è che alla fine tutti i film che facciamo sono un po’ sui viaggi nel tempo, si proiettano verso un futuro quando noi non ci saremo più, e il film comunque rimarrà e lascerà una traccia, quindi bisogna cercare di essere più comprensibili, più lineari. Sono sicuro che per quanto adesso lo spettatore contemporaneo che se lo vede possa farsi mille ipotesi magari di situazioni al contemporaneo (per esempio i social, il cellulare, ecc.), invece sono sicuro che fra dieci o vent’anni quando verrà visto forse verrà visto con più leggerezza, verrà compreso con più facilità. Poi non lo so, sto ancora digerendo il primo impatto col pubblico.

AZ: Io l’ho visto solo una volta in uno screener, quindi non ho avuto l’esperienza del grande schermo. Lo voglio vedere in sala perché anche dal punto di vista stilistico mi sembra che sia un film molto contemporaneo anche per quanto concerne il tipo di narrazione—varie omissioni, la macchina a mano, la velocità di montaggio, i fermo immagine, ecc. Però è anche un film, come dicevamo, classicheggiante. Guarda avanti, ma con un occhio indietro. Non è un film che fotografa l’esatto momento storico.
AP: Esatto, e queste era l’obiettivo principale. L’obiettivo principale era riuscire a essere onesti con sé stessi rispetto a tutto quello che ci ha cresciuto, ma senza scegliere ed emulare. Non volevo dire “mi piace questo cinema Nordeuropeo, faccio un film così, con macchina a spalla, ecc.”. Era un dire “sono cresciuto dal cinema nordeuropeo d’autore, ma son cresciuto anche dagli Anime, sono cresciuto anche dal cinema francese di Chris Marker, non cresciuto anche dal cinema di Tarkovskij, come Terminator 2, cioè che sono cresciute da tante cose diverse. Quindi la ricerca era anche un cercare questo tipo di narrazione più spiazzante, in cui però mi ci riconosco, la sento comunque fluida nella sua stratificazione.

AZ: Stavo per chiederti proprio questo, cioè se ci sono dei modelli, non solo nel cinema, se c’è un paesaggio audiovisivo o visuale al quale ti ispiri.
AP: Sì, secondo me è più narrativo, cioè visuale come dicevo ci sono tante influenze diverse che ho cercato di conciliare, come appunto il compositore, che abbiamo preso dal mondo dell’animazione giapponese, però proprio è in realtà più nella forma di scrittura. Quello che mi ha colpito dopo essere stato super saturato dalle serie e dallo streaming negli ultimi anni, è che veramente non riuscivo più a vedere un film canonico, perché sembrano scritti tutti con un algoritmo che rispetta canoni e struttura. E quindi sono andato in realtà più in esplorazione nell’ambito del Giappone. Forse perché i giapponesi scrivono usando gli ideogrammi hanno un rapporto con le immagini e con la narrazione diverso, e quindi ho visto tanto cinema dei primi anni del duemila di registi come Toshiaki Toyoda o Hideaki Anno, che in realtà hanno subito assorbito l’uso del digitale e hanno fatto della narrazione per immagini la linea per raccontare i film piuttosto che la scrittura. E quindi in realtà sono stato molto più ispirato da un tipo di narrazione più orientale, se vogliamo, cioè quella in cui dominano più le immagini…

AZ: Meno basata sulla scena, la sequenza, la causalità narrativa.
AP: Esatto. Però diciamo che lo trovo estremamente appropriato per il sentimento che andavo a raccontare. Quando sei adolescente sembra veramente ogni cosa non porti a niente, sembra sempre una cosa che si ingolfa, infatti nella prima scena, quando sembra che tutto stia iniziando, si buca la ruota. Dal primo momento dici, “ok, non andrà da nessuna parte questo film.” Ogni cosa che succede sembra che non porti a niente a livello di narrazione scritturale americana, se vogliamo, ma in realtà l’obiettivo era stratificare sensazioni emotive che poi ti portassero verso il finale. E quindi riuscire a creare le scene che, mentre nel pratico non portano a niente di obiettivo, a livello emotivo creano una sedimentazione. Questa era un po’ la sensazione che poi è quella che si vive nell’adolescenza, quando sembra che non stia succedendo niente ma in realtà stai crescendo.

AZ: E questo fa sì che il processo di stratificazione, di sedimentazione rimandi anche a un certo tipo di cinema non necessariamente narrativo, che hai già evocato.
AP: Sì, nel cinema europeo c’è stato tanto. Questa forse è la parte più che proviene dal cinema europeo. Uno dei produttori del film è Wim Wenders, e tutto ciò che gira intorno a Wenders è Chris Marker, ecc. Sono stati comunque sempre dei punti di riferimento ovvi rispetto alla narrazione emotiva. Uno dei miei film preferiti è Sans Soleil di Chris Marker. Mi chiedo spesso come venivano visti quei film quando uscivano. Nel senso che poi la critica che rimane è sempre molto oggettiva, descrive che era piaciuto per questo e quest’altro motivo, però mi chiedo veramente il pubblico come reagiva a certi tipi di film, che oggi anche se si vede mia zia che non fa niente cinema comunque qualcosa le arriva… Quindi tipo di stratificazione in relazione alle immagini è quello su cui credo che la nostra generazione dovrebbe un po’ spingere un po’ di più, perché comunque siamo educati all’audiovisivo e tutti i giorni ci raccontiamo con le immagini, quindi quello del nostro alfabeto in questo momento però non c’abbiamo gli strumenti. In un’intervista abbiamo esplorato questa cosa a Venezia, e mi sembra veramente che è come se fosse stata inventata la stampa ma non l’alfabeto. Abbiamo la possibilità di riprodurre immagini non c’è una grammatica, non c’è una narrazione nella nostra quotidianità, quindi era cercare di raccontare con le immagini, cioè di far capire che l’immagine veramente può sedimentarsi dentro nello spettatore. Però diciamo che c’è un fattore di educazione che manca, soprattutto in Italia, rispetto al guardare i film. Uno si aspetta che il film lo prenda per mano e dica “guarda, se questo fa quell’occhiata è il cattivo, adesso succede questo, sta per accadere quello,” ma in realtà questa cosa ci distacca poi dal mondo reale, perché il mondo reale non è così. È fatto di tante sfumature, di tante stratificazioni che ci permettono di comprenderlo.

AZ: Non funziona a formule.
AP: Esatto, non funziona a formule. Prima mi hanno fatto una domanda sullo sciopero americano degli sceneggiatori, e io ho detto che forse questo film non l’avrebbe mai potuto scrivere l’intelligenza artificiale… Sarebbe esplosa a scriverlo! È talmente tanto basato appunto su una spiegazione più emotiva che non può essere formulato.

AZ: È dai dagli anni ottanta che Peter Greenaway ripete che prima che gli studenti possano prendere in mano la macchina da presa devono farsi due anni di accademia di belle arti per imparare prima capire a come funziona l’immagine. La narrazione può essere una singola immagine, si pensi ai dipinti narrativi, e poi si aggiunge il tempo, il movimento, le dimensioni del cinema. È infatti interessante che tu porti l’esempio dei giapponesi, che usando gli ideogrammi sono più in sintonia con l’idea di un linguaggio che è anche visione. Greenaway nel 1996 sostiene questa tesi in un film intitolato I racconti del cuscino. È bello vedere che anche una generazione dopo, o forse due generazioni dopo, continui a esserci questa tensione. Come hai detto tu, abbiamo un alfabeto ma non abbiamo un linguaggio.
AP: Esatto. Poi magari rispondo con un Emoji, quindi quando mi approccio a fare un film, come faccio? Già uso le immagini…

AZ: Come risolviamo questo problema, cioè cosa facciamo studiare agli studenti?
AP: Secondo me l’educazione al linguaggio visivo dovrebbe essere insegnata alle scuole elementari come ci sono italiano e matematica. Io sono del 1992, quindi ho fatto la scuola nei primi anni duemila. Ho trent’anni. Adesso guardo i cugini che nel 2023 stanno alle elementari e la scuola è identica. La mattina, seduti, scrivete il pensierino. Ieri sono stato al mare, sono stato tanto bene. Ma piuttosto facciamogli raccontare attraverso le immagini, facciamogli raccontare la sensazione attraverso le immagini. Tanto, comunque, lo faranno a casa loro. Loro vedono YouTube, vedono gli streamer, e cercano di emularli e raccontano le loro passioni. Quindi perché non inserirlo? Anzi, credo che sia proprio obbligatorio inserirlo all’interno del percorso didattico. C’è rimasta l’arte nella scuola, ma ti dice dove sono collocati i quadri e perché sono importanti e basta, invece non capendo che fa parte proprio della nostra educazione, della realtà intorno. L’arte ci permette veramente di apprendere il mondo intorno. Se non formiamo i ragazzi da questo punto di vista, io non so che può succedere. Infatti, credo che poi è questo quello che accade quando ci sono cose brutte come revenge porn e situazioni in cui poi le immagini diventano armi, o diventano qualcosa di negativo. Penso che la prima cosa sia questa. I nostri genitori filmavano le vacanze. C’è una cassetta che durava un’ora e mezza, noi la mettevamo a casa e magari ce la vedevamo come se fosse un film. Ci raccontava la vacanza, raccontava una storia. Questa in realtà è una cosa che si è persa. Riuscire a conciliare in un racconto di un’ora e mezza o due ore un contesto emotivo come può essere anche una vacanza.

AZ: È paradossale. Io ho una bambina di quattro anni. Credo che la sia vita sia quasi interamente documentata in questo telefono. Ogni cosa che ha fatto, ogni cosa che ha detto. All’asilo, la prima cosa che le insegnano a fare è dipingere, disegnare, produrre immagini. Poi arriva l’alfabetizzazione e quel linguaggio passa in secondo piano. Tu però hai scelto come esempio la videocassetta, non il telefono. In questo si vede anche il retrofuturismo del tuo film: la FIAT Punto Cabriolet degli anni novanta giustapposta allo stile ipercinesico di alcune sequenze o i fermo immagine fotografici. A proposito, da dove vengono?
AP: Da Chris Marker, ma perché è stato veramente forse la prima cosa all’università che mi ha un po’ scioccato. Io ho fatto il liceo artistico. Facevo fotografia ancora analogica. Lavoravo in camera oscura. Ci hanno insegnato tantissima tecnica, ma nessuno ci hanno fatto capire il significato della foto. La foto ha un rapporto col tempo diverso rispetto alle immagini in movimento. Le foto appartengo sempre al passato e hanno una dimensione del passato. Il cinema accade davanti a noi e ci dà la sensazione che sia presente, che scorra insieme insieme al nostro presente. Quindi quando ho avuto questo grosso impatto con Chris Marker ho capito che avevo due mezzi per raccontare due temporalità diverse, e che in questo film era importante trovare questo tipo di equilibrio. Ci sono quattro sequenze fotografiche nel film. Ci sono delle foto della nonna mentre le sfoglia, foto della mia famiglia che provengono dall’archivio della mia famiglia. L’attrice che interpreta la nonna è mia nonna… E poi c’è appunto la sequenza dei baci, quella dello sparo e la scena in discoteca. Quindi anche con tre tipi di emotività diverse, di azioni relative a passato, presente e futuro. Poi hai ragione te! Io il film l’ho fatto veramente molto di pancia, rispetto a quello che che sentivo e che mi ha cresciuto, e oggi secondo me ricevo questo feedback e sto cercando veramente di riconoscermi e capisco tante cose e tante scelte da dove provengono.

AZ: Parlando di temporalità, cosa c’è nel tuo futuro?
AP: Diciamo che questo film un po’ cavalcava l’emotività tra i diciotto e i vent’anni, adesso cerco di capire quello che è successo tra i venti e i trenta, quindi cercherò un po’ di relazionarmi a quello, soprattutto con i mezzi che mi hanno cresciuto, cioè quindi con la fotografia e con il cinema d’animazione, che rimane per me una delle ambizioni più grandi e forse difficili in Italia. Il cinema d’ animazione inteso anche come segno, come disegno e come fotografia, quindi andare a scovare ancora di più il mezzo da quel punto di vista.

AZ: È una cosa pazzesca come si sia interrotta la tradizione del cinema d’animazione in Italia.
AP: Dopo Bozzetto è finito tutto. Spero di riuscire a concretizzare i due progetti che sto spingendo. Vediamo… Alla fine siamo usciti a produrre un film come questo, e quindi confido che riusciremo a fare anche un film d’animazione…

AZ: E con una produzione illustre! Non è passato inosservato anche dal punto di vista produttivo…
AP: Ci sono stati tanti padrini. Ma infatti son contento. In realtà io avrei potuto girarlo a ventiquattro anni. Avevo trovato subito un produttore e me lo faceva fare. Invece sono contento, ci ho impiegato più tempo, però sono arrivate le persone giuste. Wenders un po’ più come padrino artistico che magari diceva la sua rispetto al linguaggio (facevano un dialogo anche di linguaggi diversi, per capire cosa lui riconoscesse come contemporaneo) e Domenico Procacci come storico produttore italiano che sa come mettere in piedi un’opera prima e Giorgio (Gucci) invece è più vicino alla mia età e quindi mai ci relazioniamo di più sul modo di girare. Per esempio, mi diceva “dai, la macchina da presa te la carico in macchina senza dirlo e andiamo nei weekend girarci questa cosa.” Quindi che si è creato un bell’equilibrio produttivo. Sono super felice.