CARTOLINA DA TORONTO 47/ RITRATTO D’ARTISTA

L’evento clou del festival, se ce n’è stato uno, è stata sicuramente la presenza di Steven Spielberg, che per la prima volta nella sua lunga ed illustre carriera ha scelto la kermesse canadese per presentare una sua creazione. Il film in questione è l’autobiografia romanzata (da non altri che Tony Kushner) The Fabelmans, in cui l’acclamato regista ripercorre la sua infanzia attraverso le tappe che hanno segnato il suo avvicinamento alla settima arte, dal primo film al cinema (The Greatest Show on Earth) all’incontro con John Ford (interpretato da David Lynch in un cameo indimenticabile). Spielberg si celebra garbatamente, raccontando i primi esperimenti con la cinepresa (complice un trenino elettrico, tanto per sottolineare una teoria classica della storia del cinema che vede il mezzo espressivo inestricabilmente legato alla ferrovia), gli amori giovanili, il rapporto con la religione, le dinamiche famigliari, il dopoguerra americano e la nascita del personal computer (e quindi, in senso lato, delle tecnologie digitali di cui Spielberg è pioniere). Nonostante la lunghezza, il film è compatto ed efficace, utilizza i tradizionali archetipi del regista, resta lontano dalla storia ufficiale ed è talmente sornione (altro tratto caratteristico di Spielberg) che riesce perfino ad essere commovente a tratti.

The Fabelmans si accosta molto bene ad altre due tendenze osservate al festival: il film di formazione (di cui scrivo nel Bildungsfilme) e il ritratto d’artista. Fanno parte della seconda categoria il caleidoscopico Moonage Daydream, che celebra la vita artistica di David Bowie attraverso la sua musica e un collage di interviste, e la serie televisiva Self-Portrait as a Coffee Pot, divertissement in nove puntate sui processi artistici dell’artista sudafricano William Kentridge. Nonostante qualche omissione biografica, passaggio ripetitivo e la tendenza a riciclare dei motivi un po’ stanchi, la visione di Moonage Daydream è un’esperienza struggente, che fa sentire marcatamente la mancanza del sagace musicista inglese, faro guida del rock anglofono per almeno quattro decenni. Tracciandone la lunga e complessa carriera attraverso i personaggi principali (Ziggy Stardust, The Thin White Duke, Aladdin Sane, Major Tom, Pierrot, ecc.), il documentarista Brett Morgen confeziona un omaggio ibrido, parte concert movie parte intervista, che riesce a trasmettere una sensazione di intimità con il proprio soggetto, una delle figure più camaleontiche e sfuggenti del novecento. Se ne esce giustamente storditi e ammirati, con tanta voglia di rivisitare la musica di Bowie, di rivedere le sue interpretazioni sullo schermo, di riascoltare la sua voce, di ammirarne l’intelletto aguzzo e ironico, istintivo e dissacrante.
Se Morgen si basa sui modelli psichedelici degli anni sessanta e settanta, Kentridge torna più indietro e guarda al cinema muto da Méliès a Chaplin, risalendo poi l’albero genealogico della commedia fino ad arrivare ai fratelli Marx, di cui ricostruisce la celeberrima scena di Groucho allo specchio in Duck Soup (1933). Creata in parte in cattività durante il lockdown del 2020, la serie documentaria si propone di riflettere su una varietà di argomenti, dai procedimenti e materiali creativi impiegati dal prolifico Kentridge alla storia del Sud Africa, di cui esplora, fra l’altro, le radici coloniali, l’estrazione mineraria e l’apartheid. Da consumare un episodio per volta, questo lungo autoritratto poggia sul carisma benevolo dell’artista, che si cimenta in modo dilettantistico in balletti, canzoni, sketch comici e invenzioni visive, assistito dall’occhio esperto del grande montatore Walter Murch, anch’egli presente al festival a sostenere il progetto.