Tira vento di guerra anche al festival, dove tre pellicole ne ritraggono le durature ferite scegliendo approcci differenti. L’epico Krigsseileren (War Sailor) del Gunnar Vikene racconta la storia di due amici di Bergen, Alfred (Kristoffer Joner) e Sigbjørn (Pål Sverre Hagen), che si imbarcano nella marina civile giusto prima dell’invasione tedesca della Norvegia nell’aprile del 1940. Reclutati a far da supporto allo sforzo bellico alleato, i due gireranno il mondo loro malgrado balzando da una nave all’altra per anni. Il film di Vikene ritrae la seconda guerra mondiale da una prospettiva relativamente inusuale, non solo per nazionalità, ma anche per forma di partecipazione; gli eroi in questione sono e restano civili, ma vengono proiettati nel cuore del conflitto, la loro essenziale funzione di approvvigionamento minacciata dai temutissimi siluri degli U-Boot. Le scene di azione sono tanto avvincenti quanto brutali, con personaggi che escono di scena in modo fulmineo e spiazzante. Lontano dalle modalità edulcorate dei corrispettivi holliwoodiani, il film norvegese si concede di elidere anni, inghiottendoli in una quotidianità fatta di traumi continui e momenti di cameratismo. Nonostante la struttura cronologica, la narrazione è frammentata, alternando la situazione a casa (dove la famiglia di Alfred attende notizie e subisce l’invasione nemica) alle lunghe sequenze in mare. Per tenere insieme i pezzi Vikene utilizza il carteggio impossibile fra Alfred e la moglie Cecilia (Ine Marie Wilmann), un dispositivo tradizionale ma efficace.
Lila Neugebauer, qui al primo lungometraggio, dirige Jennifer Lawrence in Causeway, ritratto di una soldatessa americana rientrata dall’Afganistan con problemi neurologici in seguito ad un’esplosione. Il cammino verso la guarigione e il reinserimento nella vita civile la porta a stringere amicizia con il meccanico James (Brian Tyree Henry). Lento e ponderoso, il film di Neugebauer sceglie un approccio basato sull’osservazione, senza cercare facili risposte esistenziali dove ovviamente non può trovarle, ma restando saldamente ancorato alla sua scala ridotta. C’è abbastanza carne al fuoco per novanta minuti intelligenti e due buone prove attoriali, senza inutili panegirici o gigioneggiamenti. In un certo senso Causeway è una buona overture per il durissimo Najsreќniot Čovek na Svetot (The Happiest Man in the World), cronaca di un incontro/scontro fra potenziali amanti/vecchi nemici durante un evento per uomini e donne single a Sarajevo. Le ferite fisiche e psicologiche della guerra in Bosnia ed Erzegovina riemergono brutalmente nelle circostanze più improbabili, sottolineando nuovamente che l’eco del conflitto continua a riverberare nella vita quotidiana degli abitanti. Fin dalle prime inquadrature, in cui la protagonista Asja (Jelena Kordić Kuret) passeggia per la città per recarsi all’appuntamento, è chiaro che qualcosa non quadra; se i muri degli edifici sono ancora crivellati di pallottole, così gli animi dei personaggi. Quando Asja finalmente incontra il timido Zoran (Adnan Omerović), l’incubo dell’assedio più lungo del ventesimo secolo ritorna palpabile negli occhi di entrambi. Il film di Teona Strugar Mitevska mette di fronte vittima e carnefice in tempo di pace, ma non scivola in facili assoluzioni, evitando accuratamente false equivalenze. Come scrisse Primo Levi nella sua famosa critica de Il portiere di notte di Liliana Cavani, “non so, e mi interessa poco sapere, se nel mio profondo si annidi un assassino, ma so che vittima incolpevole sono stato ed assassino no; so che gli assassini sono esistiti, non solo in Germania, e ancora esistono, a riposo o in servizio, e che confonderli con le loro vittime è una malattia morale o un vezzo estetistico o un sinistro segnale di complicità; soprattutto, è un prezioso servigio reso (volutamente o no) ai negatori di verità.” (I sommersi e i salvati).