In un festival che si rispetti non possono mancare proprio i film sul cinema, specialmente in un anno di ripartenza come il 2022, durante il quale i numeri delle sale continuano a non eccellere, ma i segnali di ripresa sono chiari e (si spera) definitivi. Chiaramente The Fabelmans si piazza alla testa del gruppo, sia come “film evento” della kermesse che per il People’s Choice Award, premio che in passato ha aperto la strada alla corsa per il ben più ambito Oscar. In questa categoria si colloca anche l’umile I Like Movies (si veda il segmento Bildungsfilme per entrambi), che è stato accolto con calore da critica e pubblico, ma non ha conquistato alcun premio. Di fianco al gigante Spielberg, il piccolo film di Chandler Levack esibisce cuore e cervello, e se il primo celebra la vita di chi ha fatto tanto cinema, il secondo sostiene che chi si nutre di cinema (e non necessariamente riuscirà a produrlo) sia altrettanto fondamentale alla sopravvivenza del mezzo espressivo. E così i piccoli operatori che, giorno dopo giorno, aprono le porte delle sale.
Empire of Light, il nuovo film di Sam Mendes si occupa proprio di questi ultimi, del buio in cui scelgono di vivere le loro vite, dei mestieri invisibili che mandano avanti la macchina del cinema. Lasciatosi alle spalle gli sfiancanti piani sequenza di 1917 (2019) e le accigliate sparatorie di Skyfall (2012), il regista inglese si dedica alla delicata vicenda della fragile Hilary (la solidissima Olivia Colman) e dell’ambizioso Stephen (Michael Ward), colleghi e improbabili amanti agli albori dell’Inghilterra thatcheriana. La relazione è trattata nel film con sufficiente garbo, anche se lo spettro della semplificazione si rende palpabile in più di una occasione, sottolineandone le implicazioni sociali insieme a quelle romantiche. Come nei titoli precedenti, Mendes si affida alle sapienti mani di Roger Deakins per tratteggiare la cittadina in cui si svolge la storia. Da vedere accoppiato a Brighton Rock (1947), di cui evoca la cornice costiera (se non balneare), per apprezzarne la profonda nostalgia.
Jafar Panahi si affida invece al dispositivo retorico del metacinema nel suo Khers nist (No Bears), in cui il maestro iraniano abbozza due relazioni parallele in ambienti socialmente molto differenti, ma legati dalla sua presenza politicamente ingombrante. Come di consueto (si veda, per esempio, il recente 3 Faces) l’elite culturale rappresentata consciamente dal regista si incontra/scontra con i valori dei villaggi rurali in cui Panahi si rifugia per evitare di dare troppo fastidio alle autorità. Il film è bellissimo e urgente, solleva tematiche e questioni care a Panahi, che a luglio di quest’anno, prima del debutto di No Bears (prossimamente la recensione) alla Mostra del cinema di Venezia, dove ha ricevuto il premio speciale della giuria, è stato nuovamente imprigionato dal governo iraniano con l’accusa di propaganda contro il regime.