Il nuovo film di Lucien Castaing-Taylor e Véréna Paravel, De Humani Corporis Fabrica, prende in prestito il titolo dal trattato di Andrea Vesalio (1514-1586), pietra miliare negli studi anatomici che ne raccoglie le lezioni padovane. Il film abbraccia le tecniche pionieristiche del Sensory Ethnography Lab (SEL) di Harvard University, come i fortunati Sweetgrass (2009), Leviathan (2012), Manakamana (2013), The Iron Ministry (2014) e il recente (e repellente) Caniba (2017). Diretto dallo stesso Castaing-Taylor, il SEL si propone di raccontare il mondo attraverso la fusione di metodologie antropologiche e procedimenti artistici. Spesso i film sono delle vere e proprie incursioni sensoriali in angoli del mondo relativamente inesplorati o semplicemente distanti dalla quotidianità degli spettatori. Dalla transumanza sulle Beartooth Mountains del Montana (Sweetgrass) al peschereccio nell’Atlantico del nord (Leviathan), dalla funicolare nepalese che trasporta i pellegrini (Manakanama) alla vasta rete ferroviaria cinese, i film di docenti e alunni del SEL offrono esperienze che vanno oltre i dettami della narrativa, affidandosi (appunto) ai sensi più che al significato. Girato in cinque ospedali parigini, De Humani Corporis Fabrica si propone di utilizzare queste tecniche per esplorare il corpo umano dall’interno. Immagini di operazioni chirurgiche prese da telecamere endoscopiche si sposano al chiacchiericcio quotidiano di dottori, infermieri e inservienti; lunghe osservazioni di malati neurologici accompagnano momenti di rabbia e scoramento da parte di staff e pazienti; animate discussioni su carico di lavoro, ferie, salari e indennità si sovrappongono a biopsie di tumori, inserimenti di cateteri e riallineamenti di spine dorsali. Una lunga sequenza ci porta all’interno del cervello di un paziente, da cui vengono aspirate delle membrane e liberate delle arterie, a ricordarci che a vista d’occhio anche il nostro organo più complesso e in parte ancora misterioso non è altro che una massa di falde arricciate in una zuppa liquorosa.
Werner Herzog sceglie un approccio molto più tradizionale per investigare il funzionamento del cervello umano nel suo Theatre of Thought. Dopo i vulcani di Into the Inferno (2016), i ghiacci antartici di Encounters at the End of the World (2006), le pitture murarie della grotta Chauvet in Cave of Forgotten Dreams (2010), l’ottantenne maestro bavarese si concentra sul nesso fra biologia umana e tecnologia. A colloquio con scienziati, imprenditori, innovatori di ogni tipo, Herzog si pone domande di tipo filosofico sulla natura di percezioni sensoriali, emozioni, cognizione del tempo e realtà, spingendo i suoi interlocutori a contemplare le proprie ossessioni e curiosità. In parte, Herzog si confronta con questioni etiche che sottendono il film di Castaing-Taylor e Paravel; entrambi portano lo sguardo all’interno del cervello umano, rivelandone l’intrinseca fragilità, ma se per gli ultimi si tratta semplicemente di materia organica, per Herzog la questione si fa cosmica. In un certo senso, De Humani Corporis Fabrica è una ricognizione negli atti quasi divini compiuti dagli operatori sanitari ogni giorno, la scomposizione e ricomposizione del corpo nella sua cura. Theatre of Thought si propone invece di comprendere (e alza le mani di fronte alla presente impossibilità di riuscirci) il nesso profondo fra corpo e anima. Da un lato, il documentario di Herzog ricorda le ambizioni di Foudre di Carmen Jaquier (si veda il segmento Bildungsfilme), che colloca tale nesso (non in modo necessariamente originale) nell’esplorazione della sessualità, avvicinandosi al trascendentale attraverso il corporeo stesso. Dall’altro, Theatre of Thought accetta la propria sconfitta, ma con la solita ironia, senza lasciarsi scoraggiare da limiti che, in quanto puramente tecnologici, sono solamente temporanei.